Fotografie di Antonino M. Clemenza
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Nei giorni del lockdown per il Covid-19, quasi ogni sera, mi sono trovato al tramonto sulla terrazza dell’edificio dove abito.
In questo progetto fotografico ho documentato per più di un mese quanto succedeva attorno a me dalle ore 18:28 alle ore 20:21.
Nel tempo del lockdown siamo stati costretti all’immobilità, potendo così scorgere dagli spazi che non sempre frequentiamo, come la terrazza, un paesaggio su cui, probabilmente, non c’eravamo mai soffermati.
Il paesaggio è un concetto inclusivo, ha una dimensione così radicalmente esistenziale che è difficile da definire.
Il fotografo Guido Guidi, citando il Talmud, solitamente dice: “Ovunque tu guardi c’è qualcosa da vedere”, basta avere un’occhio contemplativo lento che sa aspettare e guardare per scorgere quotidianità, presenze, lasciando spazio al mistero, dando quindi un senso metafisico ad un’apparente narrazione dell’incompiuto o del sospeso.
La realtà sembrava trasfigurata, avvicinandosi all’astrattezza della poetica della solitudine di Hopper, riducendo tutto all’essenziale delle presenze, evocando assenze e distanze. Il senso di alienazione aveva fatto regnare la noia e l’insoddisfazione, riducendo tutto a banalità.
Eppure la luce del tramonto dava un senso nuovo, una nuova speranza di un bene che verrà. E, seppur nella distanza, non mancava la voglia di scorgere presenze per non navigare soli nella notte dell’attesa.
L’intento del mio progetto non è voyeristico per spiare le persone sole, ma solo documentale della separazione che l’essere murati comporta. Le solitudini determinate da una costrizione hanno dato voce ad un disagio in quei tardo pomeriggi di primavera, hanno comunicato con il mondo esterno, esponendosi alla vulnerabilità degli sguardi, anche del mio obiettivo fotografico. Nel silenzio, quei solitari hanno gridato il vuoto e l’assenza.