Un’estate in città

Photo by Gianpiero Fanuli

Non dimenticherò mai il giorno in cui ho incontrato la donna che mi avrebbe rovinato la vita. Era la mattina di un agosto affannato e confuso, la notte prima aveva piovuto abbondantemente cosicché dall’asfalto saliva il fiato di un dinosauro, un magma aeriforme e malmostoso fatto di polvere, smog e vapore acqueo che mi costringeva a nuotare in un acquario incandescente. Non respiravo, bevevo lava.
Fu in quello stato d’apnea ferragostana che la vidi prima volta. Nell’ora più languida e abbacinante – non poteva essere diversamente dopotutto – mi si manifestò davanti.
Era il demone del meriggio, l’inizio della dannazione e la fine dell’innocenza.
La donna che mi avrebbe rovinato la vita era lì, davanti al Caffè di via Fauchè.

 

Nell’insensata ricerca di una via di fuga dalla canicola, ero andato al bar di fronte casa. Era deserto, come solo il mezzogiorno può essere. Mi sudavano anche gli occhi e lei era apparsa all’improvviso, forse emergendo dall’asfalto, forse dai muri del palazzo o forse era stata sempre lì e non me ne ero mai accorto.
Ripensandoci, la natura da sempre munifica nei miei confronti anche questa volta mi aveva lanciato dei segnali di pericolo. Il magma, la lava, la canicola. Tutto l’universo mi diceva che stavo per varcare la soglia dell’inferno ma io non avevo saputo o voluto cogliere. Tanto volere e potere, di fronte all’entropia non hanno alcuna valenza.

 

Si era appena seduta al tavolino, quello riparato dall’ombra della tenda. La sua pelle era incredibilmente bianca, caratteristica non certo peculiare tra le diavolesse, e le labbra, quelle labbra, erano volitive e pericolosissime. Gli occhi carbone erano incorniciati da un carré altrettanto scuro e lucido. Per il caldo indossava – o meglio non indossava – degli shorts di jeans cortissimi che le tornivano le cosce. Avrei voluto continuare a scandagliarla più a fondo, ma la pressione mi si era abbassata e la vista già paludosa di suo non mi aiutava più. Mi tuffai nel bar passandole accanto e cercando di non svenire. Lazzaro dall’altro lato del bancone mi guardava con un sopracciglio alzato. Dopo qualche secondo avevo in mano già il mio Fernandito in ghiaccio e avevo ripreso a ragionare. Si fa per dire.

Mi spostai sulla soglia del bar, volevo solo guardarla per più tempo possibile perché sapevo che non le avrei mai rivolto la parola. Volevo morire così, sazio di bellezza, di non detto e di rimpianti.
Lei se ne stava lì, silenziosa. Poi m’aveva guardato di colpo. Il mio stomaco aveva fatto crack, l’epiglottide s’era intorpidita e passarono quei famosi cinque frammenti di secondo in cui la chimica fa tutto, tipo Chernobyl.

“C’è un cinema qui vicino?” mi disse con un suono provenzale, lusitano e berbero tutt’assieme.

Niente, mi aveva già fottuto. Avrei voluto dirle si, sei tu il cinema. Sei Una giornata particolare, sei Blow-up, sei Melancholia, sei tutto il cinema di Tarkovskij e pure le sue fotografie. Invece riuscii ad emettere solo un rantolo confuso che doveva somigliare ad un “si” aromatizzato al Fernandito.

Prima che potessi fare qualsiasi altra mossa maldestra, si alzò ed andò via.
Si allontanò con passi piccoli e decisi, scanditi dal ritmo secco dei suoi sabot. Svoltò l’angolo. Adieu.

Ora, qualsiasi altra persona dotata di amor proprio avrebbe lasciato perdere. Io, con una improvvisa e inaspettata propensione al pericolo mai provata prima, mi misi in testa che dovevo seguirla.

L’avevo appena persa di vista e già mi mancava.

 

Non c’era tempo di risalire su a casa, non c’era tempo di fare niente, sentivo solo che dovevo correrle dietro. Milano a Ferragosto è così vuota che è più facile scomparire per sempre.

Svoltai l’angolo. Niente. Volatilizzata. Di corsa fino all’angolo dopo. Nulla. Poi un’ombra inconfondibile. Dietro un muro senape scorgo la sua sagoma allontanarsi. Non avevo mai fatto caso a quel muro senape.
Ora ce l’avevo a portata d’occhi, la seguivo a distanza di sicurezza, rincuorato.
Dove andava? Non di certo al cinema.
Doveva vedere qualcuno? Chi?

Lei seguiva una sua traiettoria, un suo percorso che io cercavo in tutti modi di intuire o decifrare, ma non ce la facevo. Ero troppo concentrato a non perderla di vista e a ripetermi che non si può essere gelosi di un fantasma.
Si era fermata di scatto poggiandosi ad un muro rosso. Mai notato neanche quell’enorme muro rosso, vermiglio in verità. Aspettava, braccia conserte, sguardo all’infinto. Ero abbastanza lontano per non essere notato quando invece avrei voluto esserle più vicino per leggerle addosso qualsiasi cosa mi desse un appiglio per pensare che non ci saremmo allontanati mai più.

 

E invece dopo un po’ ricominciò la sua passeggiata. Non era la passeggiata di un perditempo. Lei stava andando da qualche parte me lo sentivo.
Aveva degli appuntamenti? Un solo appuntamento? L’Appuntamento?

Dopo un paio di traverse me la ritrovai seduta per terra, sotto dei grandi finestroni.
M’aveva visto. Accennò un sorriso, giuro. A labbra strette, le si infossarono addirittura le gote, e chi se lo scorda. Poi fece un leggerissimo movimento con la testa, impercettibile. Destra sinistra destra.
Era un no? Era un “ma chi te lo fa fare”? Era un “sei finito”? Cos’era?

Non capivo e mi girava la testa. Neanche mi ero accorto che i colori intorno a lei erano diversi. Il bianco era bianco, certo. Ma non era il solito bianco secco e polveroso. Era più pastoso, più morbido, come ricoperto di glassa. I gialli erano senape. I rossi magenta o corallo. I blu non c’erano, forse un sentore nelle ombre, niente di che. Le luci alte emanavano un bagliore tenue, un’aura, un luccicore. Come lei del resto.

 

Ecco, la chimica aveva fatto troppo effetto. Io non avevo saputo interpretare il suo messaggio e per punizione mi ritrovavo fluttuante in un viaggio lisergico fatto di città deserte, topografie analogiche, amori impossibili, ossessioni improvvise. Il tutto con una palette colore in toni vintage, come una Polaroid della mia infanzia.
Ero andato indietro nel tempo, ormai era mi era chiaro. Oppure il passato m’aveva raggiunto, scavalcando tutti i miei quarant’anni. O forse a Ferragosto, a Milano, la curva spazio-temporale flette, fa mezzo giro e si ripiega come non dovrebbe. Così appaiono i fantasmi, scompaiono le persone, i colori cambiano e ti ritrovi a inseguire qualcosa che in questo tempo, in questa vita, non esiste.

 

E maledette elucubrazioni, maledetti pensieri, maledetto io che vedo e non guardo. Non c’era più. Niente, era andata, svanita così come era apparsa. Nell’asfalto, nei muri del palazzo, nell’afa di agosto. Non c’era anima viva in giro a cui chiedere, neanche anima morta, Milano era la città più deserta del pianeta. Non poteva essere lontana. Dovevo solo svoltare gli angoli giusti e non avere paura di perdermi, perché perso lo ero già.

Nessuno, nessuna. Camminavo lento ormai da ore, mesi, sul limite del marciapiede. In testa mi era salita una musica triste e molto precisa. Era la tromba di Miles Davis che accompagnava la camminata di Florence nell’Ascensore per il patibolo. E io verso quel patibolo stavo andando.

 

Fu in quel momento che vidi lui. Non era possibile. Non poteva, non doveva esserci nessun altro. Mi ero ritrovato chissà come (lo so come) in Città Studi. Il sole del pomeriggio cominciava a nascondersi nell’ora blu. Dall’altro alto della strada un Maggiolone corallo e dietro, di spalle, un uomo corpulento con un paltò grigio scuro e una ventiquattrore di pelle. Guardava fisso la vetrina di un negozio.  Stava sfidando il tempo, le stagioni e un amante abbandonato per strada.

C’era poco da fare. Lui poteva sapere dunque andava affrontato.
Mentre mi avvicinavo, mentalmente ripassavo la mia battuta.
Ne avevo a disposizione solo una, secca, ma non riuscivo a scegliere quale.
Tu sai dov’è?
No, no, meglio: Dov’è?
Anzi, senza punto interrogativo. Dov’è.
Assertivo, perentorio, per non lasciare sottintesi. Tu sai, dimmelo.
Quello doveva essere il senso.

Poi ci saremmo scannati animalescamente per sancire chi dovesse esercitare il possesso su quella donna, come due scimmie idiote. Tanto non c’era nessuno ad impedire quel duello, nessun entomologo a dirci: non sarete mai voi a possederla. È lei che vi possiede. È questa la chiave dell’evoluzione. Scimmie.

 

Mi avvicinai. La vetrina che lui continuava a fissare era piena di scarpe. Da donna.
Era triste il mio nemico, lo sentivo.
Fu lui a parlare per primo. Non me l’aspettavo.
Anche tu? mi disse.
Voleva dire tutto quell’ “anche tu”. Mi riconobbi. Ero io tra altri quarant’anni. O uno come me. Come si risponde di fronte all’evidenza?
Gli feci di si con la testa, non m’aspettavo una domanda del genere e neanche una risposta del genere.

Ci eravamo incontrati in quell’abbandono, in quell’attesa. Lui ritornò a guardare la vetrina. Avrei voluto posargli una mano sulla spalla. Non lo feci perché anche io ne avrei avuto bisogno.

Tanto lei era andata, non c’era più. Scomparsa nella stessa città che me l’aveva fatta incontrare.

Me ne tornai a casa, come un soldato che ritorna dal fronte. Sulle proprie gambe, con la morte dentro. Fu un viaggio lunghissimo, questa volta. La città aveva ripreso i suoi colori, le sue distanze, la sua vita.

La mia di vita invece aveva preso una piega inaspettata. Arrivato a casa notai che la chiave non entrava più nella toppa del portone. Il Caffè di via Fauchè era ancora lì, ma aveva cambiato insegna. Lazzaro non c’era. Al suo posto c’era un ragazzo cinese. Era tutto diverso. Forse neanche casa mia era più lì di fronte.

Avevo capito tutto e come al solito feci l’unica cosa insensata da fare. Entrai a bere un Fernandito. Dopo aver spiegato al ragazzo la ricetta, mi appollaiai sulla soglia del bar.
L’unico sentimento che tra i tanti mi risalì su dallo stomaco fu quello della nostalgia.

Abbiamo percorso assieme, amore mio, una linea per tutta la città. Tu ed io, sconoscendoci, abbiamo tracciato una rotta, disegnato un perimetro, immaginato un inizio. Ho sempre amato le mappe ma non ne ho mai posseduta una perché non ho mai deciso in che porzione di mondo stare. La mia mappa eri tu, dalle caviglie alla schiena. Ho voluto abitarti per poi scoprire che quei confini non erano la fine, ma un inizio, perché in due il mondo raddoppia, e che ci sono altri mondi, se vogliamo, da abitare.

Questo le avrei detto quando l’avrei rincontrata.
Questo le avrei detto quando m’avrebbe chiesto:
te lo ricordi il giorno in cui ti ho rovinato la vita?

Un’estate in città, un racconto di Francesco G. Raganato