A life after Kafala

Fotografie di Aline Deshamps

Nel 2020, ho iniziato una serie intitolata “Non sono il tuo animale” che documenta la vita quotidiana delle lavoratrici domestiche migranti forzate che ho incontrato a Beirut, in Libano. Le donne sono state tutte sottoposte a lavoro forzato nell’ambito del sistema kafala, un sistema di sponsorizzazione della migrazione in Medio Oriente che aumenta in modo esponenziale il rischio di sfruttamento lavorativo, schiavitù e tratta.

Mesi dopo, queste donne hanno avuto l’opportunità di tornare nel loro paese d’origine, la Sierra Leone, ma per molte è stata una decisione agrodolce.

Hanno condiviso con me il loro sollievo per aver lasciato una regione in cui erano comunemente vittime di abusi mentali, fisici e sessuali. Ma era anche molto doloroso per loro tornare in patria con le tasche vuote, dopo mesi o anni di lavoro non retribuito.

Volevo catturare questa parte nascosta e complessa della storia: dopo mesi di schiavitù, come si sono reintegrate queste donne nella loro casa e nella società? Com’erano le loro vite dopo la kafala?

Nel 2022 sono partita per Makeni, una lussureggiante città nel nord della Sierra Leone, dove vivono molte delle donne trafficate. Mi sono riunita con Lucy, Fatmata, Aminata e altre donne che avevo conosciuto in precedenza in Libano, e ho anche incontrato alcune nuove donne tra cui Emma, ​​Kadiatu e Zainab che sono state rimpatriate dal Kuwait, dall’Oman, dall’Arabia Saudita e da altri paesi del Golfo. È stato l’inizio del Progetto ‘A life after Kafala’.

Kafala cambia queste donne per la vita. Rimpatrio non significa reintegrazione. Alcune di loro tornano spezzate nelle ossa e nell’anima. Incapaci nemmeno di pronunciare una parola. Altre cercano di mettere da parte i soldi per partire, per attraversare nuovamente terre e oceani attraverso reti illegali. “Preferirei morire in un paese straniero, piuttosto che qui con tanta vergogna.” è una frase che mi è rimasta impressa, illustrando la crudele realtà delle migrazioni cicliche e la mentalità di chi non ha più niente da perdere.

“A life after Kafala” traduce una personale violenza latente: quella di essere allontanati dai propri cari e di cercare di comunicare l’indicibile. La serie mette in luce il legame delle donne con la loro patria, la resilienza trovata in esilio e l’incredibile legame della maternità che ha permesso sia i sacrifici che il dovere della sopravvivenza.

 

Creativi e intraprendenti oltre le parole, questi sopravvissuti alla schiavitù si ergono come modelli di comunità e di empowerment. Alcuni cercano di creare la propria organizzazione; sensibilizzare contro il sistema della kafala per evitare che altre ragazze cadano nella stessa trappola; creare opportunità di lavoro affittando terreni e coltivando insieme riso e foglie di casava.

Durante il mio soggiorno ho visto che stavano giocando a essere di nuovo donne. Hanno cercato di riconquistare la fiducia in se stessi e nel proprio corpo con grazia, bellezza e potere, che era l’obiettivo visivo finale di questa serie.