Visual Thinkers – Intervista a Sara Emma Cervo

Visual Thinkers – Intervista a Sara Emma Cervo 

a cura di Angelica Cantù Rajnoldi

Visual Thinkers è la nuova rubrica di Perimetro dedicata a interviste a personalità che operano nell’ambito dell’immagine. Per questa prima occasione, abbiamo coinvolto Sara Emma Cervo, visual e content editor di Vanity Fair.
Cercare fotografie”. Questo è ciò che hai capito di voler fare nella vita e che scrivi sul tuo blog volevofaresololaphotoeditor, nato nel 2011. Come nasce questa passione che diventerà poi il tuo lavoro futuro? È così come te laspettavi?       
Avrò avuto 20 anni circa, mi trovavo in spiaggia con i miei amici, si parla di futuro e di cosa vorremo fare “da grandi”. «Io quella che cerca le foto per le copertine dei libri» affermo. Non sapevo assolutamente nulla della figura del photo editor, avevo iniziato da due anni la facoltà di Storia dell’Arte e non avevo la minima idea che esistesse questo mestiere. Ricordo solo che fin da ragazzina ritagliavo i giornali, conservavo gelosamente le pagine con le immagini che mi piacevano e le custodivo in una cartelletta. Poi, presa la Laurea, con una tesi in semiotica della fotografia mi iscrivo alla Bauer di Milano al primo corso di Ricerca iconografica e photo editing. Ed eccomi qui, anche se sinceramente non so dirti se è come me lo aspettavo, so di essere molto fortunata: entrare in una redazione al giorno d’oggi non è facile, noi siamo un bel gruppo e c’è tanto confronto fra di noi.

Quali sono le sfide e gli obiettivi della figura di una photo-editor? Quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà del tuo percorso? La difficoltà più grande, sicuramente, ottenere il lavoro: nelle redazioni a occuparci delle immagini siamo sempre molto pochi e averlo è già una soddisfazione! Nella routine, invece, è trovare l’immagine giusta che sia in linea con l’articolo oppure il fotografo che sappia interpretare il brief creativo quando si tratta di realizzare un servizio.

 

Da interna a diverse realtà quali Cosmopolitan, Gioia, Playboy, Dry, LOfficiel, Vanity Fair, in che direzione pensi stia andando limmagine? Quali pensi siano le tematiche calde che più lattraversano? L’immagine si evolve come tutte le arti ed è giusto che sia così: il rinnovamento è alla base e oggi, anche nello scorrere Instagram, trovi sempre meno foto ritocco, un ritorno alla pellicola e alla realtà. E inclusione, tanta inclusione!

 

Qual’è limmagine o il progetto che più di recente ti ha colpita? (Se vuoi, rispondi con unimmagine). Più che progetti citerei due fotografe. La prima è Maria Clara Macrì, l’ho incontrata da poco, avevo visto il documentario prodotto da Sky e diretto da Francesco Raganato sul suo lavoro che seguivo da un po’: farmi dire di persona come nascono i suoi scatti è stato altro. Lei e le storie dietro il libro In her room sono materiale per la sceneggiatura di un film.

 Julie Poli, è l’altra. Ucraina, sarà in mostra dal 27 gennaio alla National Academy of the Arts di Oslo con 4:59. Il titolo dell’esposizione si riferisce al minuto prima dell’invasione russa, ovvero le 5:00 del mattino del 24 febbraio 2022. Il progetto, dove non ci sono immagini di guerra, è comunque una metafora: le immagini hanno un compito ed è quello di modellare le nostre identità, raccontare della questione di genere e parlare della dissidenza politica.

Hai mai pensato di diventare tu stessa fotografa? Se sì, cosa fotograferesti e perché?  Sinceramente mai. Negli anni dell’università ho partecipato a dei corsi, ma tanto per sapere come funzionasse una reflex. Certo, alcune nozioni mi sono servite per quello che faccio oggi, ma io adoro vedere le foto altrui, studiarne i progetti, andare per mostre, collezionare foto vintage comprate da eBay. E no, non arriverò (ahimè!) mai a essere come Lee Shulman con il suo The Anonymous Project, o Thomas Sauvin con il suo Beijing Silvermine, per citarne due…
Ma sì li ho spudoratamente copiati. 

 

Riassumi lanno 2022 in unimmagine? Ahimè mi vengono in mente le foto di guerra. Gli scatti di Lindsay Addario e il suo reportage per il New York Times sulle madri surrogate. O il lavoro di Salwan Georges per il Washington Post: un treno che parte, una moglie che piange e un marito che resta per combattere l’invasore.