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Vivo da quasi tre anni in porta Venezia e la parte del quartiere a cui sono più affezionata è di certo quella eritrea ed etiope di via Tadino.
Tra i palazzi eleganti di un quartiere conosciuto da molti per l’essenza posh ed elitaria, c’è tutta una comunità, viva e solidale, che rappresenta una delle più antiche componenti della città.
Le radici risalgono al movimento migratorio del 1962 dopo l’annessione dell’Eritrea da parte dell’Etiopia. Negli anni, questo spaccato etnico non ha mai smesso di esistere, portando avanti le proprie tradizioni dalle acconciature di Asmara al famoso Zighinì, trasmettendo un nuovo modo di guardare al prossimo nella ricerca continua di una vita di condivisione. A via Tadino ci si saluta sempre con affetto, si condivide un pasto in tanti e lo si mangia con le mani, si gode della compagnia dell’altro come fosse il momento più prezioso della giornata. Ecco cosa la distingue dal resto della città: è un’oasi segreta nel indaffarato deserto milanese.
Da quando sono a Milano, questa gente preziosa mi ha affettuosamente accolta e inclusa nel proprio microcosmo, senza indugi o incertezze. Perciò il minimo che potessi fare era cercare di restituire quello che mi sembrava giusto anche preservare e salvaguardare di questa rara realtà nel rispetto dei valori e delle tradizioni che elegantemente la contraddistinguono.
Mi sono addentrata nella vita della strada e del quartiere, del modus vivendi giornaliero della comunità eritrea ed etiope e di tutte le attività che la accompagnano nell’esplorazione del tessuto urbano milanese.
Ho tentato di attenuare, se così si può dire, l’ombrosità che ossessivamente ricerco nello scatto, a favore di una resa più limpida che potesse celebrare la loro essenza, proteggendo il senso di solidarietà e coesione che queste persone trasmettono ogni giorno al prossimo non solo attraverso il proprio modo di vivere la vita, ma attraverso la propria dedizione al lavoro, la costante ricerca di nuove interazioni umane e il desiderio di salvaguardare le proprie radici contro ogni tipo di gentrificazione, appropriazione o commercializzazione delle culture.
Per me era importante mettere da parte l’ego e dare una voce e uno spazio alle esigenze e le richieste di una minoranza, che ancora oggi fatica a integrarsi, non per proprio volere, ma a causa della storica millenaria ostilità e diffidenza che da sempre caratterizzano il privilegio e chi ne fa parte.