Photo by Delio Bartolucci Boyle
–
“Quando scelgo le pietre per me è come andare a caccia”.
La caccia per come la intende Mattia Bosco, è una stagione creativa ben precisa, è la caccia preistorica, quella che serve all’approvvigionamento di cibo, per garantire sopravvivenza a tutta la tribù.
Mattia va a caccia di pietre in montagna, verso Domodossola, le sceglie con cura, poi passa settimane a lavorare su più opere contemporaneamente “perché la pietra non aspetta”.
Nel suo racconto questa affermazione è vera: la pietra, simbolo dell’immobilità, della geologia lentissima e millenaria, rivela un’urgenza intrinseca che Mattia riesce a intercettare.
“Ogni pietra ha già in sé una forma, io intervengo il meno possibile. Anzi, aspetto i suoi suggerimenti”.
Mattia lavora sulle pietre vive, non perde tempo, lavora per ore, settimane. Quando una pietra gli resiste, lui la lascia lì, poi ci ritorna quando è il momento. Dal suo racconto credo sia una questione di ascolto. Quando la pietra smette di mandare messaggi, l’opera è conclusa.
“Per me le pietre sono pezzi di pelle che si staccano dal corpo della terra”.
E si vede. Le sue non sono sculture addomesticate, non sono piante da salotto né animali da compagnia.
Sono un memento. Ci ricordano che siamo pezzi di pelle, anche noi, di corpi celesti.
Testo: Francesco G. Raganato