Qui con me

 

Fotografie di Luisa Mizzoni

 

Avevo scattato delle foto durante l’ultimo anno di vita di mia madre, dalla scoperta del tumore fino a quando è mancata.

Successivamente non riuscivo nemmeno a guardarle: le foto mi riportavano esattamente a quel momento, documentando quel periodo di paura e vicino ad una nuova e triste consapevolezza.

Quando mia madre morì, le sue amiche del corso di scrittura creativa pubblicarono un libricino con i suoi racconti e me lo regalarono.

Non lo lessi subito, non ne avevo il coraggio. A distanza di anni però, quando ho cominciato a leggerlo, ho ritrovato tutto quello che non ricordavo più e che era stato nascosto dalla malattia. E così finalmente ricordavo mia madre per quello che era; solare, affettuosa, sensibile, creativa, di fervida immaginazione.

I suoi racconti si ispirano alla sua vita, al nostro stile di vita familiare e alle sue passioni che hanno influenzato anche la mia. Così ho deciso di affiancare a quelle foto, le ultime che ho di lei, anche i suoi racconti, in modo tale da cambiare la lettura delle immagini e sulle quali ho cercato un particolare che potesse legarsi con le storie.

Ho impaginato i testi a colonne, come i racconti di fantascienza della collana Urania(la preferita di mia madre), il font è quello che usava lei sul suo computer.

Alcuni di questi racconti sono di fantascienza, altri invece dei thriller, ma ci sono anche fiabe, poesie e racconti per ragazzi.

Il mio lavoro cerca di dare una rilettura diversa da quella che un’immagine può suggerire, lasciando all’osservatore la libertà di trovare dentro quelle foto quel fattore influenzato dal racconto, che possa distoglierlo dal reale contesto o che lenisca l’intensità triste della malattia, mettendo in luce la vita e non la morte e che possa in un qualche modo ridare un più felice ricordo, una rielaborazione del lutto. 

Ora mia madre è “Qui con me” ricordandola per com’era e come per sempre sarà.

Paesaggio

Sole sul deserto.

Implacabile segugio, stana ogni goccia di umidità.

Sole sulla neve.

Tessitore di iridescenti impalpabili veli fluttuanti.

Sole al tramonto sul mare.

Grandiosa rosseggiante uscita di scena.

Pioggia primaverile.

Minuscole liquide dita picchiettano le docili foglie.

Pioggia in tempesta.

Secchiate d’acqua schiaffeggiano lezioni esauste degli alberi.

Luna.

Illusione saporosa per topi affamati, esaspera lento il loro appetito.

Neve.

Bianco silenzio scende solenne in effimere falde.

Neve. 

Gioiosa sorpresa di un’alba d’inverno.

Stelle.

Le stelle sono occhi che sorridono tra le nuvole (mia figlia a sei anni).

Di notte, senza nulla con me

In una nebbia densa che sembrava latte, mi hanno caricato così, senza darmi il tempo di reagire, di protestare, senza che mi rendessi conto di quello che stiamo facendo. Nel mezzo del nulla.

Con l’istinto della bestia braccata, taccio.

Sono rimasta accovacciata così, come sono caduta dal treno che ha appena rallentato per poi ripartire. Come se fosse un appuntamento, qualcuno mi sta cercando. C’è un silenzio innaturale. È notte fonda, è vero, c’è la nebbia, ma non si sente nemmeno un fruscio, un battito d’ala di pipistrello. Nulla. Strano, un brivido mi corre lungo la schiena, sulla nuca si rizzano i capelli.

Decido di muovermi, di non farmi trovare da chiunque sia chi mi sta cercando. Dietro di me le rotaie fredde; le attraverso carponi, silenziosa. Spero che non sentano il battito del mio cuore. Respiro appena. Nella nebbia compatta intravedo degli alberi. Finalmente mi raddrizzo e corro a rifugiarmi tra i tronchi. Ero senza scarpe, le avevo tolte per allungarmi sul sedile e dormire un po’.

Mi sembrava di essere stata fortunata ad avere uno scompartimento tutto per me. Avevo tirato le tende, mi ero avvolta nella mantella scura che di solito porto sopra il cappotto, forse stavo sognando quando braccia robuste mi hanno sollevata e, non so come, lasciata scivolare fuori dal treno.

Ora mi sento rassicurata, protetta nell’ombra dei grandi tronchi; sono possenti, contorti, non li riconosco, ma mi rifugio nel viluppo delle forti radici. C’è del muschio sul fondo. Mi mimetizzo nel buio. Tiro sulla testa i lembi della mantella. Attraverso la trama vedo intorno a me la nebbia fluttuare. 

Nel silenzio si alza improvviso un urlo, quasi un ruggito rabbioso. Mi rattrappiscono, cercando di fonder mi con le radici. Voci allarmate si levano intorno. L’universo di silenzio si infrange in mille suoni indecifrabili. Anche la nebbia sembra squarciarsi.

Figure curve, sbilenche, mostruose si aggirano oltre la cerchia degli alberi. Battono il terreno con lunghi bastoni come se non riuscissero a orientarsi bene. I loro grugniti sono incomprensibili. Non si avvicinano al bosco. Forse temono il terreno sconnesso. Hanno ispezionato tutta la radura, ora si raccolgono per consultarsi.

Sono io la preda che stanno cercando. Il terrore mi attraversa in un brivido. Pur di mettervi fine mi farei vedere. Ma mi scuoto, non mi prenderanno. Silenziosa, mi arrampico sull’albero. I primi metri sono i più difficili: infilo le mani in ogni asperità, vinco la paura e il ribrezzo per quello che le mie dita trovano. Non importa, quello che conta è salire. Sempre più in alto. Ora è più facile, i rami sono spessi, numerosi, passo dall’uno all’altro con facilità. Guardo in basso.

Nella nebbia che si sta diradando, vedo gli esseri mostruosi aggirarsi tra le radici. Si sostengono uno con l’altro per non cadere, non riuscirebbero mai a salire. Sono salva, per ora. Mi rifugio in una biforcazione robusta e attendo scrutando il terreno. Quante ore? Non so.

Finalmente avverto un mutamento nell’aria, tra poco sarà l’alba. Di nuovo l’urlo, questa volta di avvertimento. Arrancando, gli esseri fuggono oltre le rotaie. Sembrano tenere la luce nei primi raggi di sole che intravedo all’orizzonte.

Posso scendere. Corro verso i binari, inseguono il treno, attenta a ogni rumore. Non dirò a nessuno di questa notte: non mi crederebbero. Ma io sola so che sono fuggita da un destino atroce.

Cleo

Cleo sceglieva i libri toccandoli, non le importava delle indicazioni della bibliotecaria che la esortava a dirigersi verso uno scaffale piuttosto che un altro. Per lei quello che contava era la copertina, meglio ancora il dorso. Adorava la lucida levigatezza di alcuni libri e godeva nel toccare i caratteri in rilievo dei titoli. Altre volte ad attrarla era la rustica rapidità dei volumi in carta povera, allora si aggiungeva al piacere del tatto il sentore appena percepito di legno.
Allo stesso modo sceglieva gli uomini: li studiava furtiva da dietro gli scaffali, stava nascosta fino a essere sicura della scelta. Sentiva le ragazze parlare di occhi, carattere, portamento. Sciocchezze. A lei interessavano solo le mani, le guardava con attenzioni, a volte un brivido di piacere le passava sulla pelle prima ancora di essere toccata. Il calore delle mani di uno uomo, quello che le importava. Come sapeva accarezzarla, come sapeva darle piacere nell’ombra degli scaffali. A volte proprio il contrasto tra la rigidità di un libro contro la schiena e la morbidezza di mani sapienti, che correvano su tutto il suo corpo illanguidito, le strappava languidi sospiri. Non le era difficile sedurre l’uomo scelto: le bastava uno sguardo, aveva imparato a chinare la testa con modestia, a fingere una fuga brevissima, ad allontanarsi di poco. La vanità dell’uomo era sua alleata: sentirsi prescelto lo induceva a seguirla tra gli scaffali, che creavano angoli di insperata intimità, e il silenzio della biblioteca faceva da complice. Si abbandonava alle mani sapienti, senza riserve, rovesciava il capo, si allungava morbida, offriva senza pudore tutta se stessa. Faceva le fusa, Cleo, la gatta grigia della biblioteca.

Macedonia

La giornata si presenta uggiosa, l’alba è appena un filo di luce all’orizzonte. Dalla finestra dietro il lavandino, i rami del vecchio tasso sembrano neri, le bacche rosse sono piccole perle di allegria. Marta si è alzata presto, si concede la seconda tazza di tè, mentre riordina le idee. Le verdure sono cotte, il ripieno si fa in mezz’ora; per la pasta al forno ha già preparato tutto, Magari si farà aiutare dalle bambine per completare le teglie; l’arrosto si cuoce in fretta nel forno ventilato. Le sembra di non aver scordato nulla. Devi chiedere a Marco di scegliere i vini. Eccolo, si infila quella vecchia felpa sformata, va a correre nel parco. Di solito lei lo accompagna ma oggi c’è “il pranzo”.

– A che ora arrivano i rompini?

– Dai! Per una volta all’anno! E poi i ragazzi ti sono simpatici.

– Molto. Mi meraviglio ogni volta che siano figli di tua sorella. Hanno preso dalla buonanima, che ha pensato bene di morire presto pur di non sopportarla.

– Intanto ha trovato subito Adolfo, disposto a sposarsela.

– Te lo raccomando, ancora più odioso e arrogante 

di Monica, il che è il massimo!

Ma le sorride e lei si sente come a vent’anni, mentre lui l’abbraccia in un gesto generoso e protettivo.

– La finite di fare gli stupidi?

Paola è la loro terza figlia, appena adolescente. Come sarà venuta fuori così austera da due come loro? Marta ogni tanto se lo chiede.

_ Per reazione! – È la risposta abituale di Federico, il figlio più grande. – il suo karma dovrà equilibrare i vostri. Oppure ha commesso un orrendo delitto nella vita precedente si deve espiare.

Questa seconda ipotesi non dispiace a Paola e affascina totalmente Viky, la figlia più piccola.

– Non ti ricordi niente niente? – chiede speranzosa, ricambiata al massimo con una sdegnosa alzata di spalle.

Ora sono tutti in cucina, manca solo Sissi, la seconda. Ma lei si concede un po’ più di sonno: la notte sta alzata a studiare fino a tardi. Per un po’ c’è un allegro andirivieni, ognuno si prepara la colazione preferita, poi di nuovo regna la calma. Resta solo Federico.

– Hai bisogno di una mano?

– No, grazie, è tutto pronto o quasi. Viene Nicoletta?

– Si, anche se preferirei di no. Stanotte non ho dormito solo qui perchè ho fatto tardi in palestra e non avevo voglia di attraversare la città… È che sono un po’ stufo.

– Di Nicoletta?

– Di tutto. È stato tutto troppo rapido, non ho avuto respiro. La laurea, il lavoro, la convivenza. E adesso continua a parlare di figli.

– Sarebbe bellissimo!

– No, per niente. Non con me che non ne voglio. Non so, tra qualche anno, forse. Ora no. E comunque, evidentemente non la amo abbastanza. Sta diventando solo un’abitudine.

– Peccato. Ero così contenta di saperti sistemato, tranquillo.

– Ingabbiato nel tuo bel quadretto familiare. Ma io ho voglia di nuove armi, di respirare, di vedere il mondo.

– lo puoi fare anche con Nicoletta.

– Ma lei vuole altro.

– Allora dille la verità, non trascinatevi.

– Proprio tu parli di verità! E con zia Monica? Non capisco perché ti ostini ogni anno a invitarla. Sai che nessuno di noi la sopporta, per non parlare di quell’odioso dello zio.

– Ma i tuoi cugini sono simpatici.

– Certo, E infatti li frequento volentieri. Ogni tanto ci vediamo. Sono quei due che proprio non reggo.

– Ma lo zio è così affettuoso…

– Fin troppo.

Qualcosa nello sguardo di Federico fa rabbrividire Marta. Il viso di suo figlio si è improvvisamente chiuso, indurito.

– Perché dici così? – la voce le è uscita bassa, quasi un sussurro.

– Niente, cose vecchie.

Ma Marta non è disposta a lasciar correre, qualcosa le si insinua dentro, sente i polsi tremare.

– Ora mi spieghi.

– Non fare quella faccia, sono arrivato in tempo. È successo secoli fa. Sissi era piccola, neanche se lo ricorda. Spero.

– Cosa? Ti prego, spiegati bene.

– Niente, ho sorpreso lo zio con le mani addosso a Sissi. Ero piccolo, ma grande abbastanza da fargli paura: detto che l’avrei denunciato e che l’avrei detto a voi.

– Dio mio. – Marta si porta i pugni alla bocca, le sembra di dover fermare la vita che le sfugge. Prende un coltello, immagina di affondarlo nella gola di quel maledetto. Lo sguardo di Federico la immobilizza.

– Lo sapevo che non dovevo dirtelo.

Adesso farai una tragedia e passerai dalla parte del torto. Ti ho detto: è una cosa vecchia. E poi sono sempre attento. Anche con le piccole. Per una volta all’anno che viene! Non è più successo niente.

– Ma altre bambine? Non sappiamo se l’ha fatto!

– E non lo sapremo mai. Basta adesso, non farmi pentire di questo momento di confidenza.

Entra Sissi, ancora assonnata non si accorge dell’espressione smarrita di sua madre, né dello sguardo rabbuiato del fratello.

– Buongiorno. Tranquilla, mamma, faccio la doccia e ti aiuto ad apparecchiare.

Marta si alza e l’abbraccia con forza. Sissi è sorpresa.

– Ehi, ci siamo viste ieri sera, non torno mica dall’Alaska!

– Scusa, avevo bisogno di farlo.

Sissi ride.

– Quando vuoi!

Marta continua a cucinare, fa tutto con scrupolo, attenta ai dettagli. Lucida i calici del vino, l’anno prima Monica le aveva fatto notare che erano opachi: “Devi usare un po’ d’aceto col risciacquo. Ancora non l’hai imparato?”. Quest’anno i calici sarebbero stati brillanti. Marta sente un coltello piantato nel petto, proprio vicino al cuore. E suoni le arrivano ovattati, i gesti sono misurati e faticosi, le gambe le sembrano di piombo. Marco la guarda perplesso, pensa che sia la fatica dei preparativi.

– Giura che quest’anno è l’ultima volta.

– Sì, sì, giuro quel che vuoi.

Marta risponde meccanicamente, assorta nei suoi pensieri.

 Arrivano gli ospiti: per primo Matteo, il cugino medico. È simpatico, ha sempre qualcosa di divertente da raccontare. Marta lo guarda, si sente rassicurata: È una persona su cui fare affidamento, nella futuro sa che i suoi figli potranno contare su questo cugino. Arriva anche Paolo: È il cugino magistrato. Sua moglie è in dolce attesa e tutta la conversazione verte ora sulla nascituro. L’atmosfera è serena, Marta sente scegliersi l’oppressione.

Dura poco però: arrivano Monica e il marito. Si chiede come faccia ad accoglierli con il sorriso sulle labbra. Si sente sdoppiata indicare i posti a tavola, porgere i piatti con garbo e nello stesso tempo avverte un urlo silenzioso che le si gonfia in gola, la mano cerca il coltello accanto al piatto, si vede ficcarlo nella gola flaccida di quell’uomo che le ripugna, chi ha violato l’innocenza della sua bambina. Ma il pranzo procede tranquillo: I giovani chiacchierano animati, hanno un mucchio di cose da raccontarsi. Viky si sente autorizzata a dire il suo parere su tutto ed è ascoltata con indulgenza dagli altri. Marta pensa ad altre bambine, non così amati, non così protette.

Adolfo è ingordo, mangia tutto con voracità e Marco lo rimprovera con l’abituale mitezza.

– Se ti senti male, non chiedermi aiuto. Ti ho detto che nelle tue condizioni, con il cuore affaticato e il colesterolo alle stelle, dovresti stare più attento.

– Si vive una volta sola! Anzi, sai che ti dico, caro dottore? Farei volentieri il bis di questa ricca macedonia con la panna.

– Lo dici per provocarmi? – scherza Marco.

– No no, ho proprio voglia di un’altra porzione!

Marta si alza, il sorriso sulle labbra. Prende dalle mani ributtanti la coppetta, va in cucina.

Ecco la macedonia.

Aggiunge le bacche rosse del tasso, le nasconde sotto la panna.

E torna in sala..

Euskady

È l’ora che volge al desio, la Maria si sta ritirando impigrire onde parallele e l’isola si ricongiunge alla spiaggia. Il cielo è lattiginoso, forse anche la foto è incanutita con me, I colori hanno perso la brillantezza originaria. Sulla sinistra, in primo piano, una macchia mediterranea, indistinto groviglio di piante battagliere, disposte a crescere sulla sabbia. Profumo di erbe aromatiche, maggiorana e rosmarino evocano le grigliate sui fuochi di legni portati dal mare. La sera i baschi danzeranno intorno ai falò: riuscire a superarli con un unico balzo tiene lontana la malasorte. Più in basso, la battigia conserva tracce d’acqua e due minuscole figure giocano a specchiarsi. La protagonista è l’isola, rocciosa, nettamente separata dal mare da una cintura di alghe. Una lingua di sabbia si protende verso la terraferma, ma è l’unica concessione: il resto è pietra grigia, dirupo, cespugli e pini marittimi. Emerge netto il lineare pontile che permette di raggiungere l’isola con l’alta marea: un segmento di pietre tracciato con una rigoroso righello nel braccio di mare per nulla turbato dalla sua presenza. La luce arriva da destra, il mare che ricordo azzurrissimo è argento puro. L’aria è ferma, in attesa del tramonto, nell’attimo in cui, scaldata dal male, rotolerà leggera a insinuarsi nelle case.

Le minuscole figure sullo sfondo sono le mie mediterranee figlie, stupite dalle marine dell’oceano, in sfida perenne a rincorrerle o a farsi spumeggianti sirene.

L’impronta

La custodia rigida della chitarra, tenuta ferma dalle gambe snelle fasciate nei pantaloni di velluto, le mani affusolate con le perfette unghie a mezzaluna, il capo chino coperto da un cappello a falda larga e il viso avvolto in una sciarpa di seta bianca.

“Un musicista che va a suonare“ pensava Milla, appoggiata alla parete vibrante del metro. E a stanca, come quasi tutte le sere, e non vedeva l’ora di rifugiarsi in casa, latte caldo e biscotti. Non avrebbe neanche cucinato. Distrattamente osservava la pozza che si stava allargando proprio alla base della custodia. Ci mise qualche secondo a mettere a fuoco i pensieri. Il misterioso musicista spari nella folla che scendeva un attimo prima che lei potesse avvertirlo. Distolse lo sguardo per riportarlo alle sue fantasie. Finalmente anche lei era arrivata. Stava frettolosamente avviandosi all’uscita, quando si sentì apostrofare da una voce allarmata: – Ha le scarpe sporche! -si volto incuriosita e si accorse che aveva lasciato le tracce delle sue scarpe sul pavimento bianco del marciapiede.

Impronte inequivocabilmente di sangue segnavano il suo breve percorso. Era passata sulla macchia umida lasciata dalla custodia della chitarra.

Anno galattico spazio 39 27

Senza la tuta sarebbe evaporato all’istante,
Ridotto a un mucchietto d’ossa calcinate dall’implacabile Sol1412.
– Tom, Devi girarti di 45° a destra. I Magnetoscopi segnalano una cavità piuttosto ampia.
La voce rassicurante del pilota inondava con un suono limpido il casco oscurato a protezione degli occhi. Le rocce rosse, smerigliate da un vento costante che calava dai poli, proiettavano ombre tremule sulla sabbia ardente. Solo le fenditure e i crepacci risaltavano nitidi, come profonde ferite nere.
Si voltò lentamente, attento a non perdere l’equilibrio per la bassa gravità.
– ripasso tra due ore. Vedi di trovare qualcosa. Sono stufo di girare intorno a questi sassi, non voglio rischiare di veder evaporare oltre al resto anche la gratifica. Datti una mossa.

Lo sapeva bene anche l’esploratore quanto fosse assolutamente essenziale scovare e portare a casa qualcosa, qualunque cosa: una traccia d’acqua, una particella di gas, una scheggia di minerale, solo qualcosa di diverso da quei sassi tutti uguali. Erano già alla 10ª esplorazione e per il momento non avevano trovato altro che rocce senza valore. Ma Tom si sentiva ottimista. Non era tipo da soffermarsi troppo sulle proprie sensazioni, ma avvertiva di essere gradualmente pervaso da una strana euforia.

Controllo il livello dell’ossigeno: era a posto. Strano. Si decise a muovere qualche passo, lentamente, sfiorando con le dita guantate la parete di roccia. Si insinua nella fessura con cautela. Per quanto robusta, la tuta andava trattata con cura, era la sua unica alleata. Il casco si schiarì all’istante. Il buio, intravisto dall’esterno, era ora assoluto. Avanzando con cautela, accese le luci. Si trovava all’interno di una caverna stretta e profonda, leggermente degradante. La tuta compenso anche lo sbalzo termico. Mentre procedeva nell’oscurità, seguiva il percorso grazie a un piccolo visore a infrarossi posto sulla sommità del casco. Percorreva una spirale discendente. Si interrogo sulla singolarità della situazione. Quasi non sembrava opera della natura: quale fenomeno tellurico poteva aver provocato un simile camino vulcanico? Non ne aveva idea.

La sensazione di benessere andava aumentando. Si sentiva sempre più fiducioso e ancora una volta rilevò l’anomalia di quella percezione. La luce andava aumentando, tanto che i faretti del casco si spensero automaticamente. Anche questo gli parve anomalo. Dopo un’ultima svolta nel tunnel raggiunse la cavità segnalata dai rilevatori della navetta. Era un’enorme caverna luminescente, quasi interamente occupata da un placido lago sotterraneo. Minuscole onde lambivano la stretta striscia di sabbia su cui aveva lasciato le proprie orme. Tom si era fermato e si guardava stupito intorno, esultante per la sua scoperta. Fece per accendere il trasmettitore con l’intenzione di avvertire il pilota, ma si rese conto di non riuscire a muovere le braccia. Si sentiva inerte, incapace di qualsiasi movimento, e tuttavia non era spaventato.

Sulla superficie del lago avanzavano minuscole luci multicolori e un basso mormorio si insinuò nella sua mente. Avvicinandosi, le luci si sollevarono come sospinte da un refolo leggero. Lo circondarono sfiorando la tuta. Un battito d’ala di farfalla invase la sua mente trasformando il sommesso mormorio in un pensiero udibile.
– benvenuto, benvenuto. Possiamo leggere? Possiamo sapere?
Tom schiuse la mente, lasciando che dita leggere sfogliassero le pagine dei suoi ricordi.
Improvviso il gelo. Le luci si ritrassero spaventati.
– ci distruggerai? Perché?

Riemergere al sole implacabile costò all’esploratore le sue forze residue.
– Tom, finalmente! Hai trovato qualcosa?
Mando i robot escavatori?
– no, non è necessario. Non c’è niente. I soliti maledetti sassi.
– hai un tono strano. Che c’era là dentro? Tracce di vita?
– no, nulla sono solo stanco di stare qui dentro. Né tracce di vita, né… tracce di morte.

Il fiore rosso

C’era una volta, lontano lontano, una grande valle circondata da alte montagne e attraversata da un placido fiume. Questa valle era il regno felice di Re Khublai e della sua sposa Chan Li. I contadini aravano i fertili campi di fondovalle, i pastori guidavano le greggi sui declivi delle montagne e i soldati alle frontiere garantivano la pace. Il Re e la Regina erano molto amati. Khublai era giusto e generoso, Chan Li dolce e riservata. Ma per sciagura i sovrani non erano felici. Da tempo desideravano un erede, eppure non riuscivano ad avere figli. Dai regni vicini arrivavano medici e consiglieri, ma fino ad allora nessuno era stato in grado di trovare la soluzione.
Un giorno però giunse al castello un vecchio saggio, chiese di essere ricevuto e di conferire con il re. Con la consueta cortesia, I due sovrani gli concessero di varcare la soglia della sala del trono. Il vecchio avanzò curvo, appoggiandosi a un robusto bastone, con le lunghe vesti che sfioravano il pavimento.
– Vi ringrazio, potente sovrano e dolce regina, per avermi ricevuto.
– Grazie a te, vecchio saggio, che hai fatto tanta strada per venire da noi. Qual è il motivo della tua venuta?
Intanto Chan Li aveva fatto portare una comoda seduta per l’anziano viaggiatore.
– Sono qui perché mi è giunta voce che desiderate un erede, ma non riuscite ad averlo
La regina abbassò gli occhi con una sospiro e subito Khublai le strinse la mano per consolarla.
– Sei stato bene informato, straniero. Ci rechi forse qualche buono consiglio?
– Ebbene sì. Conosco il modo con cui potrete avere con certezza un figlio. Ma tu, caro re, dovrai affrontare un lungo viaggio, da solo, oltre i confini del tuo regno.
La regina si volse allarmata verso il suo sposo.
– Non è possibile, I regni intorno al nostro sono spesso in guerra. Senza la Guardia reale, temo per la sua vita!
– Ascoltiamo prima il consiglio del vecchio saggio, che ha parlato di certezza. Poi decideremo.
– Dovrai arrivare alle Montagne Blu, oltre l’orlo del tramonto, lassù dovrai cogliere il fiore rosso della fertilità per donarlo alla tua sposa. Potrai portare con te soltanto la curva scimitarra dei tuoi avi, il mantello che ti ha tessuto tua madre e una piccola sacca con il cibo.
Negli occhi del vecchio saggio il re vide la sincerità delle sue parole e decise di partire.
I primi giorni di viaggio furono piacevoli e tranquilli, malgrado avesse lasciato la giovane moglie in lacrime. Khublai si consolata pensando alla sua missione. Era accolto ovunque dai suoi sudditi con sincera affezione. Varcate le alte montagne che cingevano il regno, si trovò per la prima volta in terra straniera, senza la protezione delle sue guardie e senza l’accoglienza solitamente riservata a un sovrano. Era solo un viandante. Decise di scegliere la strada più breve, anche così avrebbe dovuto attraversare paesi in guerra.
Intorno a sé vedeva solo rovine e desolazione.
Un giorno, in campo, vide un vecchio curvo che scavava a mani nude dei solchi nella dura terra per seminare.
– Perché non usi un aratro?
– I soldati mi hanno portato via tutto, per fonderlo e farci armi.
– Prendi la mia scimitarra, non puoi continuare in questo modo.
– Grazie, ma tu come farai disarmato, generoso viandante?
– Convincerò con le parole che vengono in pace.

Cammina cammina, il re vedeva avvicinarsi all’orizzonte la sua metà. Guardava con tristezza i piccoli villaggi abbandonati dalla gente in fuga dalla guerra, le case bruciate, i frutteti distrutti. Un giorno sulla soglia di una casa isolata vide una vecchia seduta al sole.
– Viandante, hai visto per caso un ragazzo lungo la strada?
– Nessuno, mi spiace. Chi stai aspettando?
– Mio nipote, È andato a cercare qualcosa da mangiare, ma temo che tornerà a mani vuote.
– Posso darti un po’ del mio cibo, non è molto ma vi basterà per qualche giorno.
– Raccoglierò qualche frutto.

Cammina cammina, finalmente il re arrivò ai piedi delle montagne e cominciò a salire.
Ha una svolta del sentiero vide un pastorello che faceva la guardia A poche pecore macilente.
Era poco più di un bambino, avvolto in miseri stracci tremava di freddo.
– Prendi il mio mantello, stanotte farà ancora più freddo.
– Grazie, ma tu come farai?
– Sono forte e camminare mi scalderà.
Finalmente il re arrivò sulla sommità della montagna E nella grigia desolazione delle rocce intorno non noto nulla. Il suo cuore trema nel timore che avesse fallito. O forse era arrivato troppo tardi. Forse non aveva capito le indicazioni del vecchio saggio. Riprese la strada deciso a percorrerla nel più breve tempo possibile, ansioso di fare rientro nel suo pacifico regno. Ripercorrendo al contrario il sentiero scosceso, incrocio di nuovo il pastorello.
– Ti ho preparato una fiasca del latte delle mie pecore, generoso viandante.
– G che sfigarazie, la porterò con me.
Passò di nuovo davanti alla casa nella vecchia a cui aveva donato il suo cibo.
– Munifico viandante, ho tessuto per un panno, non ho altro da donarti.
– Ti ringrazio di cuore, lo porterò con me.
Ormai prossimo al confine del suo regno, incontrò di nuovo il vecchio contadino.
– Prodigo viaggiatore, devo chiederti un grande favore.
– Dimmi, se posso ti aiuterò volentieri.
– Prendi con te il mio unico nipote, a pochi mesi, la guerra ci ha lasciati soli e io non ho più la forza di crescerlo.

Il re rimase sbalordito, guardando la cesta in cui riposava un bambino bellissimo che lo guardava con occhi fiduciosi. Lo avvolse con cura nel panno che la vecchia aveva tessuto, lo nutri con il latte che il pastorello gli aveva donato e si affrettò verso casa, per affidare alla sua sposa quel dono meraviglioso. Fu accolto con gioia da tutti i suoi sudditi. La regina, radiosa, per festeggiare il lieto fine organizzò una grandissima festa.

Cani

Carlotta è un cane di rara bruttezza e simpatia. Ha le zampe corte e storte come un tavolino rococò, la schiena piatta e larga come un poggia piedi, la testa grossa, due minuscole orecchie e grandi occhi neri dolci e affettuosi, la lingua penzoloni sempre disposta a leccare mani o cani che gli si accostino. La sua padrona, l’attempata signorina Carolina, che i maligni trovano somigliante alla cagnetta, afferma che Carlotta è di rara bellezza: ” ha sentito il pelo? Velluto! Velluto di seta! E gli occhi? Ha mai visto occhi più espressivi? E la coda? Che comoda che sia così corta! Una volta è venuta a trovarmi una signora con il suo volpino: ha rischiato di far cadere le mie preziose porcellane con quella coda pelosa! Invece Carlotta può girare tutto il salotto senza sfiorare i miei preziosi tavolini con le mie preziose statuine.” La bassa statura di Carlotta, tanto comoda in casa, crea non pochi problemi al parco, perché la mette all’altezza del naso anche dei cani più piccoli, che non esitano a manifestarle un corteggiamento serrato. Le alte grida della signorina Carolina che difende la virtù dei Carlotta fanno a correre i padroni dei cani, anche i più miti, per allontanare i corteggiatori che non sembrano in verità così sgraditi. La signorina a volte confida quanto le sia di peso dover difendere anche se stessa dalla corte dei padroni dei cani:” trovano ogni scusa per rivolgermi la parola! Sono proprio degli sfacciati” alla fine della salutare passeggiata nel parco, la signorina Carolina si allontana con la sua Carlotta e sembra pensare: “come è difficile essere belle!”

Nero è un pastore belga con un occhio azzurro, lo sguardo fiero e il passo baldanzoso. Willy, il suo amico, è piccolo, chiaro, con una voce imperiosa e la coda ricciolo. Quando il padrone di Willy lancia la palla, nero saetta attraverso il prato, con eleganza la prende quasi al volo e torna indietro trotterellando. Willy lo insegue ansimando. Quando Nero incrocia Willy, lascia cadere la palla vicino al suo ardito musetto. Willy la afferra e tornano orgogliosi, uno accanto all’altro, per riprendere il gioco. Questa è amicizia.

Pallino è il cane più minuscolo del parco. È così minuscolo che la sua padrona, piccolina anche lei, chi ha fatto un cappottino rosso con minuscole maniche per le minuscole zampe, per non perderlo nell’erba. Con la stoffa avanzata dalla cappottino, la sua padrona si è fatta un cappello che la fa sembrare un grande fungo che cammina sul prato. D’estate pallino a una minuscolo mantello di seta rossa che lo fa sembrare un minuscolo moschettiere. E proprio con la baldanza di uno moschettiere, pallino corre incontro a tutti i cani facendo festa e correndo tra le loro zampe come fossero colonne. I cani lo annusano perplessi e forse si domandano come faccia un topolino ad avere aspetto e odore di cani. Quando è l’ora di tornare a casa, alla padrona di pallino basta un solo richiamo: lui obbedisce prontamente e insieme si avviano verso una casa che tutti immaginiamo minuscola, con minuscole sedie e tavolini, ma con un grande amore dentro.

La Luce

La madre

Sto tessendo un bozzolo di luce interno al mio vecchio corpo. Riesco a distinguere il singolo, sottile, lucente, raggio di sole caldo.

L’ho afferrato. Giro rapida su me stessa, intreccio, annodo e lo avviluppo, mi avvolgo in bagliori, riverberi, balenii. Mite e pietoso è il calore mi nutre. Rinascerò farfalla luminosa.

La figlia

Le mie braccia sono vuote di tutti gli abbracci che non potrò mai più darti. Troppo in fretta la follia ha consumato il tuo corpo. Sei fredda, tu che volevi vivere di calore. Sei opaca, disseccata come una foglia d’autunno, tu che volevi vivere di luce. Le nostre parole erano ombre da dissolvere con un gesto che ci allontanava. Tu chiudevi gli occhi, ci escludevi. Non ci hai dato il tempo di dirti che eri tu la nostra luce.