RUBRICA CINEMA CLUB: CARLO SIRONI

Cinema Club è un format che racconta il mondo del cinema attraverso una serie di interviste a registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, produttori. Cinema Club dà voce al cinema d’autore e approfondisce tematiche e visioni oltre che racconti dietro le quinte. Uno scambio di idee e alla scoperta del cinema da una prospettiva diversa.

Una rubrica di Marco Mucig
Foto di Giovanni Battista Righetti

Ho avuto il piacere di condividere un caffè con Carlo Sironi poco dopo la prima milanese del suo ultimo film, ‘Quell’estate con Irene’. È stata una chiacchierata informale per scambiare idee non solo riguardo al suo ultimo lavoro, ma anche per parlare del suo percorso e del suo approccio al mondo del cinema.

C’è una cosa che mi ha colpito nel tuo ultimo film: la maglietta dei NOFX e la scena in cui uno dei protagonisti ascolta musica punk. È stata una sorpresa, non ti pensavo un fan di quel genere e di quell’estetica.

Da un lato, faccio un cinema molto lento e riflessivo, ma dall’altro mi piace inserire momenti di forte impatto e intensità. Sono sempre stato un grande appassionato di quel genere musicale e degli anni in cui è emerso. C’è una sorta di romanticismo malinconico in quel periodo che mi affascina.

La tua carriera ha avuto inizio con i cortometraggi, giusto?
Sì, sono sempre stato un grande fan dei corti. Quando ho realizzato il mio primo corto, erano gli anni in cui erano ancora molto importanti, perché erano rari e si giravano ancora su pellicola Super 16, mentre il digitale era ancora un terreno oscuro.
Per me è stato un modo per testare le mie capacità di passare dalla fotografia alla regia. All’epoca facevo il video assistente e ho cominciato da lì. Non ero uno di quelli che a 18 anni sognava di diventare regista.

A un certo punto mi sono stufato del mio lavoro e ho iniziato ad assistere un amico che aveva realizzato un corto molto bello. Il mio primo corto è stato una sorta di banco di prova per verificare se ero davvero portato per la regia.

E gireresti un cortometraggio oggi?

No, non credo, a meno che non mi venga proposto. Per me, il lungometraggio è la forma perfetta. Anche la serialità ha il suo fascino, ma spesso non viene sfruttata appieno dal punto di vista del contenuto. Ci potrebbero essere delle grandi opportunità. Per quanto riguarda i cortometraggi, credo che, espressivamente parlando, non abbiano più molto senso. Quando vedi una serie di corti tutti insieme, è come leggere una raccolta di racconti di autori diversi, e questo toglie un po’ di valore all’esperienza. Inoltre, nel contesto attuale, è difficile fruire appieno di un corto che dura 15 minuti.

Tuttavia, devo dire che i corti che ho realizzato sono stati estremamente utili. Senza aver girato “Valparaiso” e senza averlo affrontato in quel modo, non avrei potuto realizzare “Sole” nello stesso modo.
Purtroppo, bisogna rendersi conto che girare un lungometraggio è un percorso molto lungo e difficile. Anche gli autori che hanno realizzato uno, due o tre film spesso non riescono a farne uno ogni due o tre anni.

Non voglio chiederti perché hai scelto di lavorare con un’attrice francese, perché è riduttivo, ma ho trovato interessante la tua scelta di lavorare con attori non italiani.

Spesso sembra che il mio approccio sia esterofilo, ma secondo me il problema non sono gli attori italiani, bensì il modo in cui viene raccontato il nostro paese. Troppo spesso si tende a cadere nel folklore, a raccontare storie che rispecchiano stereotipi già noti. In questo modo il 90% delle opere prodotte in Italia sarà sempre “italiano” nel senso più stereotipato del termine. Questo è il vero problema. Quando si racconta l’Italia in modo prevedibile e stereotipato, e si sceglie un attore italiano per interpretare quel ruolo, è inevitabile che il risultato sia prevedibile.

Ci sono molti attori italiani interessanti., attori straordinari come Luca Marinelli, che secondo me è già una star internazionale e lo diventerà ancora di più. Poi ci sono Alessandro Borghi, Edoardo Scarpetta e molti altri che ora mi sfuggono.

L’approccio di voler raccontare una realtà già conosciuta riduce le possibilità creative e la curiosità del pubblico. Se dici qualcosa chiaramente e ad alta voce, piaccia o meno, viene capita. Se invece sussurri qualcosa a bassa voce, alcuni la capiranno bene e altri no.

Qual’è il tuo rapporto con il produttore, dato che hai iniziato con Kino Produzioni dai cortometraggi.

Credo che ogni regista sogni di trovare un produttore come Giovanni (Pompili). La cosa bella è che siamo cresciuti insieme, quindi c’è una fiducia profonda che va oltre il semplice lavoro. Giovanni ha creduto nel mio secondo cortometraggio e abbiamo avuto un ottimo risultato, arrivando in concorso a Venezia nella sezione Orizzonti. Da lì abbiamo deciso di provare a produrre un film insieme. Nonostante la nostra limitata esperienza, procediamo fianco a fianco. Giovanni capisce che i film devono avere una personalità e questo è ciò su cui lavoriamo insieme. Mi dà una libertà enorme e non potrò mai ringraziarlo abbastanza.

Con “Sole” hai partecipato al Torino Film Lab, com’è stata quell’esperienza?

Con “Sole” ho partecipato al Torino Film Lab. In realtà, abbiamo iniziato con la Berlinale Scrip Station, una versione breve e intensiva del Torino Film Lab durante la Berlinale. Poi abbiamo continuato con il Torino Film Lab e abbiamo anche fatto il Sundance Lab, che al tempo aveva una versione mediterranea.

C’è stata la stretta collaborazione con gli editor, abbiamo lavorato davvero molto con loro. È stata un’esperienza lunga e, a volte, frustrante perché stavamo sempre aspettando finanziamenti e il proseguimento del progetto. Dato che eravamo in una realtà piuttosto piccola, sia io che Giovanni abbiamo dovuto avere molta pazienza. Non riesco nemmeno a dire quando esattamente abbiamo iniziato a lavorare su questo film o quanto tempo ci abbiamo messo. Sicuramente sono passati più di cinque anni, forse anche sette. Abbiamo proceduto con cautela, chiedendoci se saremmo riusciti a portare a termine il film. Giovanni non aveva ancora prodotto nulla, quindi è stato un processo lungo e impegnativo. Inoltre, non mi dedicavo solo alla regia, ma facevo molte altre cose legate al mondo del cinema. Ho lavorato come filmmaker per molte società a Roma.

Hai cambiato sceneggiatrice da “Sole” a questo film. Qual’è il tuo approccio alla scrittura?

Quell’estate con Irène” l’ho scritto insieme a Silvana Tamma. Ho deciso di cambiare perché avevo in mente un’idea diversa e mi piaceva l’idea di esplorare qualcosa di nuovo. Avevo già lavorato molto con Giulia Moriggio, abbiamo fatto tutti i cortometraggi e anche “Sole”, quindi era interessante per me vedere come sarebbe stato lavorare con qualcuno di diverso. Mi sono trovato molto bene con Silvana, abbiamo lavorato insieme per definire il tono del film. Durante la scrittura, ci sono due fasi principali: all’inizio e alla fine. Nel mezzo, non è necessario scrivere ogni giorno, è importante anche lasciare spazio per le idee e le ispirazioni. Per me è fondamentale scrivere con persone diverse, perché ognuno porta con sé una prospettiva unica. Silvana mi è sembrata la scelta giusta per questo progetto, dato che ha un approccio diverso rispetto a Giulia. Tuttavia, è importante rimanere fedeli all’idea originale, anche se è necessario svilupparla ulteriormente durante il processo di scrittura.

Sembra che gli spazi e i momenti di condivisione e connessione siano molto limitati oggi come oggi. Tu frequesnti altri registi?

Sì, ai voglia. Anche se nel mondo del cinema si tende a parlare più di opportunità, risultati e chi fa cosa, piuttosto che dei contenuti veri e propri. Roma ha un po’ questa tendenza al gossip, essendo una città storicamente centrata sul potere, si analizza spesso più il potere che il contenuto.

Gli spazi di dialogo tra colleghi non sono così numerosi. Tuttavia, posso citare molti registi con cui scambio idee. Ad esempio, ieri in sala c’era Abruzzese, il regista di “Disco Boy”, che è un amico che sta facendo dei sopralluoghi a Milano. L’ho conosciuto a Parigi mentre ero in una residenza di scrittura, lui vive lì. È una persona fantastica con cui parliamo sempre di cinema. Io gli ho fatto vedere i provini per il mio nuovo film e lui mi aveva mostrato alcune prove per “Disco Boy”. C’è un vero scambio di idee e parliamo di cinema in modo diretto. Posso citare alcuni film italiani usciti quest’anno, come quello di Tommaso Sant’Ambrogio, “Gli oceani sono i veri continenti”, e quello di Alain Parroni, “Una sterminata domenica”. Sono colleghi con cui è davvero piacevole parlare e ci consideriamo amici.

La difficoltà è che siamo un po’ separati, sia geograficamente che nel modo frammentario e lungo con cui produciamo i film. Se riuscissimo a fare film con una frequenza simile agli anni ’60, ogni uno o due anni, sarebbe più facile mantenere il focus e la coerenza nel lavoro. Perché se impieghi dieci anni nello sviluppo di un film, anche tu cambi rispetto agli anni iniziali del progetto.