Francesca Tassini

Fotografie di Lisa Carletta
Intervista di Sebastiano Leddi

 

 

Nel tuo libro “Come mosche nel Miele” (Solferino Libri) parli di una Milano anni ’90 selvaggia e incerta. Cosa ti aspettavi allora da lei e come pensi sia cambiata oggi?

La Milano dei primi anni ‘90 era poco abituata ai complimenti e all’attenzione che riceve oggi. Era una città dura e a tratti inospitale, ma anche viva, vibrante e autentica. In “Come mosche nel miele” è una vera e propria protagonista che cela nei suoi recessi i personaggi di una storia generazionale (oltre che intima) di autodistruzione nel suo divenire, di crescita e di riscatto. Cosa mi aspettavo in quegli anni da Milano è esattamente ciò che lei mi ha dato: è stata il pusher con la caramella. Mi ha offerto tutto ciò che cercavo su un piatto d’argento e, quando lo desideravo, mi ha nascosta, facendomi annusare un senso di libertà assoluto che ha finito per stritolarmi. In un certo senso il romanzo è anche un ritratto di quei tempi liquidi, a un passo dall’avvento delle tecnologie smart, protesi di noi stessi, che tanto ci hanno dato e tantissimo ci hanno tolto.

Oggi Milano è un’altra città: la sporcizia è stata ben nascosta sotto il tappeto e la vitalità di cui parlavo prima si è organizzata, facendo nascere realtà anche molto interessanti.

 

 

 

Cosa ti ha spinto a scrivere la tua storia e quella della Milano di allora?

Mentre scrivevo, ho pensato a come avrei potuto raccontare la mia esperienza passata di dipendenza da sostanze (argomento trito e ritrito da narrativa e cinema) da una prospettiva diversa. Mi sembrava ci fosse una lacuna nelle narrazioni già esistenti: la maggior parte si incentravano su chi c’è già dentro o a un passo, sulla distruzione fisica e mentale, in un susseguirsi di situazioni che a volte sfiorano il morboso. C’era invece meno un racconto sulla nascita del desiderio: crudele e malato, ma pur sempre un desiderio. Molti si chiedono come e perché si cominci: ecco, io ho voluto raccontare proprio questo, la fascinazione perversa dietro il buco, il bisogno di annientamento della mente e dei sensi che si può provare già in tenera età e che poi diventa “scelta” – ma sempre condizionata da problemi preesistenti, non necessariamente evidenti da subito. Ho usato il mio punto di vista di allora, anziché quello della me stessa di oggi, nel tentativo di sollevare il lettore da ogni giudizio e preconcetto, creando un racconto il più immersivo possibile. È un libro che non offre risposte ma che descrive, racconta, quasi come un documentario.

 

 

 

La ricerca di un’identità che accompagna tutto il tuo romanzo di formazione è ciò che ti ha portata oggi ad essere una sceneggiatrice e scrittrice affermata. È accaduto quello che cercavi?

Sì! Sono passati circa vent’anni dalle vicende raccontate nel romanzo. Oggi sono una fiera quarantenne che scrive sceneggiature e adattamenti, oltre che narrativa per adulti, bambini e ragazzi (quest’anno ho due titoli in uscita, uno doveva essere già uscito ma il Covid ci ha costretti a rimandare). Credo che una parte di me sia rimasta ancorata all’infanzia e all’adolescenza, anche per questo mi piace scrivere per ragazzi. La scrittura televisiva e quella per il cinema mi hanno insegnato a “visualizzare” scene, dialoghi e personaggi mentre li scrivo, quasi come fossero loro ad autodettarsi. È un’esperienza catartica, e oltre ad essere la mia professione è anche la mia più grande passione. Sono fortunata, in molti sensi!

 

Quelle che definisci “esperienze estreme” che hai vissuto all’epoca, pensi siano ancora presenti a Milano o che siano cambiate nel tempo? 

Ci sono cose che non spariscono. L’eroina è ancora presente, solo meno visibile. Conosciamo tutti le storiacce sul bosco di Rogoredo; beh, esisteva anche negli anni ’90, solo che allora non sembrava fregare a nessuno. Era uno dei tanti posti dove si spacciava, insieme ai campi della periferia sud (alcuni a pochi passi dai Navigli e da Romolo, prima che arrivasse lo Ied), alle gigantesche fabbriche abbandonate, alle cascine dismesse a pochi chilometri dal Duomo. Le nuove generazioni hanno cambiato modalità e approccio: l’eroina hanno cominciato a fumarla anziché iniettarsela, illudendosi che così sia meno pericolosa. Le sostanze sono sempre più a buon mercato perché mischiate con psicofarmaci e sostanze chimiche che giocano con la testa e col sistema nervoso, in modi talvolta irreversibili. È anche diffusa l’idea che sostanze come la cocaina e le amfetamine siano droghe quasi leggere, da assumere per combattere l’ansia sociale o per “tirarsi su”. Solo che poi come si scende da lassù, dopo anni di abuso? Assumendo altro… Ed è un gatto che si morde la coda.

Per quanto riguarda invece la vita di strada, quella è cambiata in maniera radicale negli ultimi due decenni. Oggi non esistono più le orde di ragazzi che trascorrevano quasi 24 ore fuori, tra la fiera di Sinigallia, i parchi e i sottopassi delle metrò. Tutto avviene molto più in “interni”.

 

 

 

Un passato tra Milano e Istanbul. Ci sono delle similitudini tra queste due città? Cosa ti sei portata via?

Qualche anno fa ho deciso di ricostruirmi da un’altra parte. Ho scelto Istanbul perché è stato amore a prima vista e perché credo mi somigli. Istanbul è una città verticale, dove le cose non succedono in linea retta ma si arrampicano, vanno sottoterra, e poi c’è il Bosforo… La bellezza di Istanbul è impossibile da spiegare, ti riempie occhi e mente. A parte la sua bellezza incontrastabile, Istanbul è una megalopoli che vive letteralmente 24 ore al giorno. Pur nella sua apparente caoticità, vivendoci ti accorgi di come tutto alla fine funzioni. C’è un’enorme differenziazione sociale che la rende unica, è praticamente un mondo nel mondo in cui tutti entrano in contatto con altre realtà, non solo la propria. Tornando a Milano ho avuto l’impressione di trovarmi in un paesino di provincia! Ma ne ho apprezzato il verde, cosa che a Istanbul manca. Milano ha un suo charme più discreto, non s’impone altrettanto violentemente ai sensi e (a mio avviso) tende ad essere più omologante. Entrambe soffrono di due mali diversi: Istanbul di una politica ultraconservatrice che tocca tutto il Paese e che purtroppo negli ultimi anni l’ha trasformata, Milano invece meriterebbe più rispetto da parte di tutti: non è solo una città da sfruttare a proprio beneficio ma anche da capire, se non addirittura amare. Credo che su questo aspetto molti milanesi si siano schierati per la loro città negli ultimi anni.

 

 

 

Racconti che la musica ti ha accompagnata e salvata. Ha un ruolo ancora determinante nella tua vita?

Essenziale, come la scrittura. Le mie giornate cominciano e finiscono con la musica: ho la grande fortuna, lavorando soprattutto da casa, di potermelo permettere. È la forma d’arte più antica e immediata, ecco perché è compresa e interiorizzata anche da neonati e animali. A me aiuta a mantenere la concentrazione, permettendomi anche di vivere un livello emotivo ulteriore. Il mio background musicale è molto ampio e comprende generi che, specie in Italia, sono poco seguiti o soffrono di stereotipi. Quando vado a casa di qualcuno che non ha la musica accesa sento che manca qualcosa di fondamentale: ma come si fa a stare senza?!

 

Come vivi ora il rapporto con la tua città e cosa ti aspetti da lei per il futuro?

Ho un rapporto conflittuale con Milano: un giorno la amo, il giorno dopo ci faccio a botte. Sono una milanese atipica: non faccio aperitivi, non vado nei club a meno che la serata non meriti davvero, raramente mi vedi nelle zone della “movida”. Quella dove abito da un paio d’anni con mio marito è una zona abbastanza popolare che incarna la vecchia Milano ma con un’identità tutta sua. Non è NoLo per un soffio, e dove ti giri ci sono officine meccaniche e trattorie alla mano.

Nell’immediato auguro alla mia città di risollevarsi in fretta dalla botta del Covid e che alcuni settori molto colpiti – come eventi e spettacolo – tornino presto a marciare. Milano ne ha passate tante, se la merita un po’ di serenità! Nel tempo, poi, spero che trovi una propria identità forte e unica. Il mio sogno è che diventi più verticale e imprevedibile, che trattorie e street food comincino a servire pasti continuativamente per quanti di noi lavorano fuori dagli orari da ufficio (si creerebbe anche più lavoro con più turni), che gli uffici pubblici e alcune attività allunghino le aperture: il lavoro e i ritmi di vita sono cambiati, ci si deve adeguare. Vorrei inoltre che si cominciasse ad accontentare una certa varietà umana e sociale, con una maggiore differenziazione nell’offerta culturale e non solo. Perché molti generi musicali, ad esempio, sono da anni relegati ai centri sociali (e alcuni neppure a quelli)? Qualche realtà che sta proponendo eventi più variegati per fortuna c’è, ma sono mosche bianche.

Milano a volte mi dà l’idea di una terra di mezzo tra le capitali nordeuropee e la cultura mediterranea. Ci si dovrebbe lasciare andare di più, osare maggiormente, senza pensare esclusivamente a cosa tira in quel momento e fa girare più soldi. Su alcune cose siamo sulla buona strada, ma il futuro è imprevedibile: incrociamo le dita e vediamo cosa ci riserva.