Antonio Diodato

PER NASCONDERE LE MANI E DIMENTICARE LE COSE
Antonio Diodato
 

Fotografie di Mattia Zoppellaro
Testo di Francesco G. Raganato
Rubrica: IL GIORNO E LA NOTTE

Io nei cappotti ci sono sempre stato bene, mi sento protetto e non solo dal freddo e dal vento. Per me è una sorta di mantello dei superpoteri e l’ho capito quando dopo anni di bomberini, giubbini e cose simili, me ne fecero provare uno in un negozio. Decisi subito di investire tutti i miei soldi in quel cappotto perché mi dava un’aria diversa, tutta nuova e insieme vecchia e un po’ romantica. 

Mi sentivo un po’ Corto Maltese, un po’ reduce di guerra, un ragazzo che ancora uomo non era, ma un po’ ci provava a diventarlo. Quel cappotto l’ho portato per decine di inverni, qualche volta anche sui palchi, in giro per l’Italia e all’estero. 

Quando mi invitarono a suonare a Mosca, mi resi conto di non avere molte alternative e lo portai anche lì, pur sapendo che non sarebbe bastato a contrastare il freddo russo. E allora vai di maglietta, maglia termica, maglia di lana e maglione pur di averlo con me. Quando entravo nei locali, a dir poco riscaldati, davo inizio alla svestizione e poi mi rimontavo prima di andare via. Faceva ridere quel rito, ma oggi ne apprezzo la testardaggine.

L’ho usato come coperta, come cuscino, ho usato le sue tasche per nascondere mani, per dimenticare le cose e per ritrovarle un giorno trasformate in qualcosa di diverso. Perché è un cappotto magico il mio e chissà, forse, ognuno ha il suo.

 

Diodato ha sempre dato alle piccole cose l’importanza che meritano. Ne canta la fragilità, la normalità. In questo senso, anche tutte le emozioni per lui sono normali, quindi importanti. Essere cresciuto a Taranto, città dei due mari, gli ha dato due orizzonti. Quello della costa, vicino e sicuro e quello dell’infinto, sconosciuto e ricurvo. In questi mari si muove Diodato, che è davvero un po’ Corto Maltese. Forse per quei suoi occhi malinconici. O forse perché in un ambiente come quello della musica italiana, pieno di urlatori e gente che mostra i muscoli, i tatuaggi e i denti d’oro, lui invece alza il bavero per proteggersi dal vento e guardare lontano.

Mi sentivo un po’ Corto Maltese, un po’ reduce di guerra, un ragazzo che ancora uomo non era, ma un po’ ci provava a diventarlo. Quel cappotto l’ho portato per decine di inverni, qualche volta anche sui palchi, in giro per l’Italia e all’estero.