Ci sono stagioni che non si dimenticano.
“Questo cappotto me lo ha lasciato una persona cara, è l’unica cosa calda che io ricordi di quell’inverno freddissimo.”
Martina quando era a New York aveva vent’anni, faceva già la modella e come secondo lavoro l’assistente in una galleria d’arte. New York sotto zero non doveva essere così accogliente. Poi arriva un cappotto, inaspettato come un abbraccio, sufficientemente grande per avvolgerla un po’ più del necessario, quello di cui aveva bisogno. “Me lo hanno dato un po’ perché stessi al caldo, un po’ per ritornare a casa e restituirlo.”
Martina poi è tornata ma quel cappotto ce l’ha ancora. Sono passati otto anni.
“Quando lo indosso mi sento un po’ qui e un po’ lì.” Immagino si riferisca ad una geografia emotiva, ma non importa sondarlo.
Le stagioni si susseguono, sempre uguali; in realtà sono profondamente diverse. L’inverno dei nostri vent’anni non sarà mai uguale a quello dei quaranta. Le stagioni per loro natura a un certo punto finiscono, belle o brutte che siano; è nel loro avvicendamento che andiamo avanti. Cauti, perché non sappiamo come sarà la prossima.
C’è una vecchia canzone della fine degli anni ‘60, scritta da una coppia di coniugi dì Brooklyn, Alan e Marylin Bergman, il titolo è What are you doing the rest of your life? il cui testo ad un certo punto dice che tutte le stagioni e i giorni della nostra vita sono come monetine. Ce le abbiamo in tasca, non sappiamo che farci, ma l’importante è spenderle assieme a qualcuno. Cosa farai nel resto della tua vita?
“Non ho mai inseguito la moda, mi è capitata per caso. Sono laureata in matematica finanziaria, pensa. Da ragazzina volevo fare la reporter di guerra…”