Come di consueto, facciamo finta che Milano sia una repubblica a sé stante, circondata e che faccia una selezione in entrata e tu dovessi presentarti: chi sei, da dove arrivi e cosa sei venuto a fare?
Sono venuto a cambiare. Arrivo originariamente dall’Emilia paranoica di provincia (un paesino industriale vicino a Reggio); mi sono mosso linearmente lungo la via Emilia, tra lì, Bologna, Parma e infine Milano. Di base sono un tecnologo e credo un innovatore: nella mia vicenda professionale e personale ho applicato l’innovazione tecnologica prima al business di altri (ho lavorato in una multinazionale della consulenza per una decina d’anni), poi ai nuovi media come imprenditore, poi al mondo della creatività.
Hai visto Milano in almeno tre momenti diversi della tua vita, raccontaci chi eri e che impressione avevi di questa città…
4 momenti:
sbarbo neolaureato, 6 mesi di postdoc; l’ho vissuta più o meno come un turista in una grande capitale, da estraneo eccitato (ma ahimè un po’ squattrinato); mi sono sparato tutti gli show che mi potevo permettere, in una specie
di paese dei balocchi post punk: Ramones e Straycats
al Rolling Stones, e Casino Royale prima maniera allo Zimba.
Poi ci sono tornato spesso nei primi 90 come giovane professionista della consulenza multinazionale, abbastanza workalico; quindi ufficio 12 ore al giorno, cena di lavoro, albergo moderatamente lussuoso ma anonimo, nota spese, quella roba lì. Diciamo Milano da bere un po’ fuori tempo massimo.
Dopo, dai primi duemila ci sono tornato come imprenditore digitale; e allora è diventata come dici tu, il mio hub, il centro del mio mondo professionale o meglio la mia base di partenza; ho fatto crescere un’azienda molto internazionale, viaggiando moltissimo. Per me era una Milano dura, un campo di battaglia o un ring; e su un ring, anche quando vinci, un po’ le prendi ed esci indurito non in senso buono.
Nel 2012 ho venduto con successo l’azienda che avevo creato (a Docomo, la Vodafone giapponese), non per necessità ma per scelta, anzi diciamo come da piano – piano b, a dire la verità, come alternativa a creare
una grande azienda indipendente alla Facebook, cosa rivelatasi impossibile partendo da Sant’Ilario d’Enza ;). Da lì ho viaggiato meno e mi sono concentrato su tre posti: Parma (famigghia), Londra (HQ europeo di Docomo, e di mia figlia) e appunto Milano. Questo è successo abbastanza in sync con il fulgore milanese che stiamo vivendo; l’ho letto e lo leggo come un posto comunque non facile (Milano non è mai facile) ma fertile, con diverse persone/team/crew con la cazzimma di lasciare un segno e appunto di cambiare (se stessi e un po’ la città).
Quali sono i luoghi, le manifestazioni ed i progetti in cui hai “le mani in pasta” a Milano?
Ci sono una serie di cose tecnologiche che finanzio e più recentemente anche di nuovo guido operativamente; ma queste le tralascio perché sono (almeno nelle aspirazioni) più global che local. A Milano invece impattano le cose che ho supportato lato diciamo arts&entertainment; in ordine di apparizione: Better Days (la crew del MI AMI, nella fase in cui è diventato imprescindibile per i nuovi artisti italiani), Santeria (quando ha fatto il salto da Paladini a Toscana), l’Apollo (quando la crew di Rollover ha cercato e poi trovato una casa stabile), e FeST – il Festival delle Serie TV (da subito, quando era una aspirazione dei suoi direttori artistici).
Ci sono un paio di altri progetti in cui sono coinvolto
che non sono milanesi ma che hanno un impatto anche qui: Club2Club (che ogni anno ha qualche appendice importante milanese) e Il Parma Calcio (rifondato con 6 miei amici di Parma dopo il fallimento 4 anni fa, e che è prontamente tornato dalla serie D alla serie A, e un paio di soddisfazioni a San Siro se le è prese 😉 )
Quindi: emiliano di nascita, figlio di operai, studente e poi ingegnere, esperto di internet nel momento giusto, imprenditore con una sua etica e visione. Perché non ti piace quando ti definiscono un mecenate?
Perché mecenate mi sembra definire un rapporto in qualche modo gerarchico, di non-indipendenza; cosa succede al progetto e al suo realizzatore nel lungo termine? Rimane dipendente dal finanziatore, o da una serie di finanziatori o se vuoi mecenati? Credo sia più sano impostare il tutto come avviamento, kick-start, passaggio: ti supporto in una fase, che ti mette in una fase successiva di autonomia, in cui magari il mio ruolo rimane magari utile ma non è più “necessario”. È meglio per tutti, e si possono fare molte più cose, avere più impatto. Poi il termine mecenate proprio mi suona male, polveroso.
Con mia moglie Lucia gestiamo a Parma un progetto che supporta progetti in zona arte contemporanea e pop culture: con una logica simile (ti produco una cosa, ma poi vediamo di monetizzarla in qualche modo, così ne facciamo un’altra); sempre per ragioni di comunicazione dell’approccio e di “estetica linguistica” non si chiama “Fondazione” (sbadiglio) ma Catalog (BDC – Bonanni Del Rio Catalog), una serie in divenire di cose che vogliamo fare.
Milano ad un certo punto è diventato il tuo hub e anche Londra lo è in parte… cosa pensi della visione progettuale che vede Milano ispirarsi al modello Londra?
La direzione attuale di Milano è chiaramente quella; anche nel rapporto divergente con il resto del paese. Questa deriva londinese la vivo come una tentazione, difficile da resistere; è uno sviluppo a portata di mano, e si presenta meglio delle alternative vicine attuali, con il resto del paese che vive un declino auto-percepito molto forte. Ma le contraddizioni e i problemi di Londra, e per riflesso del Regno Unito sono così evidenti e attuali da non doverli nemmeno citare, dal caro-case alla Brexit. Possiamo, dobbiamo, avere una traiettoria diversa. Dobbiamo ricordare che non si può essere felici da soli, né in città né “fra città”; la ricetta ovviamente non ce l’ho, ma direi che consapevolezza e solidarietà ne sono due componenti.
Parliamo di futuro? Tecnologia, ambiente, economia, numeri, musica… sei un positivista oppure pensi che…
Positivista abbastanza totale, soprattutto se prendi una prospettiva globale; il quadro del reale, dati alla mano (povertà, accesso all’istruzione, violenza privata e pubblica…), non è mai stato buono come oggi per l’umanità. Con il gigantesco punto critico dell’ambiente, del consumo del pianeta; anche in questo io penso che la soluzione sia più progresso, più tecnologia. “Tornare indietro”, per come siamo fatti (non culturalmente ma geneticamente) non è possibile. Essere umani non è non avere problemi, ma averne sempre di nuovi e risolverli.
Quindi il futuro è dei romantici o dei disillusi?
Quando sei disilluso non crei futuro. Su questo non ho dubbi. Un problema che sento è che la disillusione in qualche misura “funziona” su un piano estetico; è popolare come filtro Instagram, come corazza da mostrare e in cui guardarsi allo specchio. Ahimè, è una trappola da cui temo di non essere immune. Help! 😉
Chiudi gli occhi, come vedi Milano tra dieci anni?
Coi navigli navigabili e le crociere per turisti Atm premium, la ruota panoramica Milan Eye, il derby Inter-Chelsa nel campionato europeo per club e la rinascente comprata da Harrods. No dai, scherzo. (scongiuri)