Photo by Roberto Ramirez
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Anche con il finestrino abbassato, il caldo è al limite della sopportazione: di notte la circonvallazione esterna suda asfalto e inappetenza. Eppure Milano non è vuota, non ancora perlomeno. La 90 è ferma, in allerta, modalità zanzara e una donna scende al volo alla fermata Maciachini. Poco più in là si arriva a un passaggio coperto, spazio di transizione fra il traffico e i citofoni più vicini, spazio anonimo come sono tutti questi interstizi della città pensati da urbanisti annoiati, spazio pubblico informale almeno il venerdì sera – così suggerisce l’evento su Facebook. Un gruppo di ragazzi di origine latina, età compresa fra i 20 e i 30 anni, si raduna qui. Sono la prima e la seconda generazione, questa la definizione dei sociologi. Rapper, in realtà. Al microfono alternano testi di politica e disoccupazione, di identità e resistenza, di aspettative e disillusione; intorno a loro qualcuno annuisce seguendo la frequenza delle parole, qualcuno filma con lo smartphone e qualcuno beve birra tiepida dalla bottiglia. Usano il rap per raccontare di sé nella propria lingua madre; qualcuno è cresciuto in Italia, qualcun altro è arrivato solo alcuni anni fa da Ecuador, Peru, El Salvador, Bolivia e Colombia.
Nessuno è nato qui.