Fotografie di Claudia Cavaliere
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Ho seguito la diffusione del coronavirus dal 24 febbraio 2020, quella è la mia data zero. Da allora ho provato a tenere traccia del cambiamento che Milano stava vivendo, e poi l’Italia con le fotografie: le piazze, le strade, i locali che si svuotavano, mentre le persone vagavano smarrite, spaventate, interrotte. La scelta del bianco e nero nella narrazione è intenzionale. L’ho usato a sottolineare lo stato di sospensione che ci siamo ritrovati a vivere, l’attesa, lo scorrere del tempo inevitabilmente rallentato. E poi ci sono state Lodi, Bergamo, Brescia. I luoghi che ho visitato negli ultimi mesi e tutti per la prima volta.
Ed è proprio presso gli Spedali Civili di Brescia che la mia narrazione è diventata personale: ho parlato con dottori, infermieri e volontari e scattato loro dei ritratti. Ho riflettuto sulla prima linea, su quanto nessuna persona sia mai un numero, su quanto le nostre storie siano intrecciate le une con le altre, su quanto abbiamo bisogno di sentirci, sul fatto che spesso facciamo la differenza per gli altri senza neppure rendercene conto e che il gesto che riceviamo è una mano che si posa su di noi e ci accompagna.
Voci dalla quarantena
“Adesso si riesce anche a scherzare, prima non si riusciva nemmeno a respirare. Ci sono stati venti giorni di panico senza fine. Puoi vedere tutto quello che è successo per qualche ora, ma se lo vedi per ore e ore, poi per giorni, è proprio difficile metabolizzare. Fisicamente ce la fai, ma moralmente è difficile. Se qualcuno si ammala e poi muore, ti colpisce in prima persona. Poi ne arriva un’altra e tu ti ci butti di nuovo, speri che il finale sia diverso”
Maria, 40.
“Io sono stato a Codogno e Casalpusterlengo a febbraio, è stato il primo momento di confronto con il virus e ci ha fatto rendere conto del fatto che qualcosa di grave stava succedendo. Mi ricordo come ci guardavano le persone, timidamente dalla finestra, avevano gli occhi sbarrati, che dicevano: “Ecco, ne stanno portando via un altro”. Non avrei mai immaginato tutta questa sofferenza. Due giorni fa ho portato via dalla sua cascina un signore di 86 anni, era cosciente ma aveva una grossa difficoltà respiratoria e una serie di problematiche cardiovascolari. C’erano i nipoti davanti a lui, seduti sulla scala di questa cascina che piangevano, mentre salutavano il nonno. È stato come assistere alla scena del loro ultimo saluto”
Salvatore Compatti, 53
“Molte persone erano parecchio spaventate, soprattutto all’inizio, quando si cominciava a vedere che la gente non tornava a casa. C’è stata una grande cooperazione. Qui ci sono molte divise, molti volontari: volontari del soccorso, Protezione Civile che ha montato le tende, medici e infermieri del Pronto Soccorso, tecnici di radiologia, infermieri dell’at, internisti, chirurghi. E tutti dicevano: “Io sono qui, ditemi cosa devo fare e lo imparo”. Ognuno c’ha messo tanto del proprio, è così che abbiamo funzionato”
Giovanna Perone, 56
“Non lo so quale istinto mi ha spinta, non penso sia solo il fatto di essere un medico, penso sia stato più per una fratellanza tra esseri umani, per aiutare nel modo in cui uno può farlo. In questo momento ho la fortuna di essere medico e quindi posso fare qualcosa in più sul piano pratico, ma si torna sempre alla possibilità che ognuno di noi ha di aiutare gli altri: pazienti, amici, parenti, dottori, infermieri. Ho avuto un momento di grossa commozione quando un giorno mia sorella mi ha portato la spesa. Ero stanca, non ero riuscita a farla. Ho aperto la porta di casa e vederla lì a due metri da me, senza poterla abbracciare e sapendo quanto fosse preoccupata è stato bello. Uno passa tanto tempo a discutere e poi si commuove di fronte a un gesto d’amore”
Elena Cimino, 35