Quando torni a Milano?
Ritorno quando ho un buon motivo per farlo: a volte è per lavoro, come in questo periodo in cui sto preparando il progetto per miart, altre volte è perchè ho voglia di vedere i miei amici. Fare avanti e indietro mi aiuta a vedere le cose in modo più concreto sia a Milano, che a Berlino, nella mia vita ma soprattutto a livello sociale, politico. Potermi spostare mi aiuta a sentire l’Europa come un unico grande territorio, che potenzialmente davvero potrebbe non avere più quei ‘confini’ che ancora purtroppo ci sono e che escludono moltissime comunità, rendendole invisibili, vulnerabili, isolate. Sono estremamente fortunata.
O mi chiedevi quando ci torno a vivere?
Cosa ti ha fatto andare via?
Tante cose in realtà. Alcune sono più intime e personali e riguardano le relazioni con gli altri, con il mio lavoro e con me stessa; altre sono la risposta al primo anno di immobilità e alla gestione avvenuta a Milano, agli impedimenti imposti che ho seguito, ma anche fortemente criticato, alla mancanza di grandi spazi verdi.
Milano è la mia città e lo sarà sempre, ma più in generale fatico a sopportare ancora la mancanza di alcuni diritti sociali fondamentali che in questo paese è urgente discutere e risolvere e questo per me resta un grandissimo limite. Le cose lentamente si muovono, lo so, ma la mia velocità di crescita e le necessità che sento come ‘cittadina’ di questo paese adesso come adesso sono asincrone.
Quello che mi circonda non mi riflette se vissuto quotidianamente, mi rallenta e un pò anestetizza. Forse mi spaventa vedere a che velocità si sta trasformando la città, non sempre per il meglio. Non essendo una grande metropoli i cambiamenti, la gentrificazione, sono evidenti e aggiungerei a volte anche violenti. Non so se voglio assistere a tutto questo ora come ora.
Nel 2019 avevo già deciso di restare a Berlino e quando ho vinto l’Italian Council, che è un programma del Ministero della Cultura a sostengo degli artisti contemporanei, mi sono trasferita.
Cosa cercavi a Berlino?
Una città che mi facesse respirare, che mi riflettesse per come sono e cambio, un luogo in cui fare politica è nei gesti di tutti i giorni, come una consapevolezza quotidiana imprescindibile. Berlino non è sicuramente come ‘la Berlino’ di 20 anni fa che trovi nei racconti di molte persone, ma è una città giovane, che si organizza, mobilita, agita. C’è libertà, responsabilità, senso civico in un ordine sparso che a volte appare confuso, ma che funziona, almeno per me. Mi ci rivedo, mi trovo.
Cosa hai trovato?
Berlino è una città policentrica, da scoprire, che appare ogni volta diversa. Di tutte le metropoli in cui ho vissuto è sicuramente l’unica che considero ‘contemporanea’, in termini storici ovviamente, ma non solo. Parlando di ricerca e lavoro c’è un’attenzione fortissima alle tematiche di cui mi occupo (archivi, architettura, geopolitica) e ci sono Musei ed Istituzioni incredibili. Più nel pratico, una delle principali ragioni per cui mi sono trasferita, è che avevo bisogno di spazio: c’è davvero tanto verde, in bicicletta arrivi ovunque sia in città che fuori. Spesso la città viene travolta da un vento incredibile che mi ricorda l’oceano: il clima è sicuramente un elemento imprescindibile, quasi come se urbano e naturale si fondessero in una nuova forma di città, organica, che tenta di resistere ad una struttura imposta.
Mi racconti qualcosa sull’ultimo progetto che hai fatto e che verrà presentato a Miart?
In occasione di miart, la fiera internazionale d’arte contemporanea di Milano, grazie ad Untitled Association, mio partner culturale da oltre un anno, presento ‘Death of a folding boat on dry land’, progetto che ho sviluppato in continuità con la ricerca avviata l’anno scorso presso lo ZK/U – Zentrum Fur Kunst und Urbanistik proprio a Berlino.
Lo stand è concepito come uno spazio trasversale in cui affronto due tematiche chiave della mia ricerca: gli archivi e le isole. L’allestimento prevede un wallpaper realizzato appositamente da Jannelli&Volpi, azienda con cui avevo già collaborato nel 2018, che fa da sfondo a due monitor per il video ‘Her ship was so small (the Boatbuilder)’ e a sei fotografie tratte dalla nuova serie ‘Study for an archipelago’.
Il pattern mostra alcuni disegni parte della ricerca: sto collaborando con un amico artista, Isaac Schaal, nella realizzazione di un prototipo di barca pieghevole ed abbiamo affidato parte del lavoro ad un’Intelligenza Artificiale (AI), voluta e pensata come mia assistente, quasi un duplicato a dire il vero. Ho adottato un approccio in antitesi con quello che il machine learning prevede perchè uso dataset di ridotte dimensioni, che raccolgo, pulisco e riorganizzo seguendo un ordine che si basa sulla percezione del colore, l’associazione visiva della forma, l’istinto umano, le emozioni: azioni difficili da riprodurre meccanicamente, ma che attraverso la programmazione di uno specifico algoritmo è possibile imitare. Ci interessa capire ‘come creare un’autonomia di pensiero nei sistemi di apprendimento automatico’.
‘Her ship was so small (the Boatbuilder)’, il video in styleGAN che presentiamo, racconta proprio gli esercizi compiuti dall’AI nel disegnare i piani di costruzione della barca: sequenze di immagini che si mostrano in una forma quasi primitiva di segno, come geroglifici contemporanei che descrivono una barca surreale, con cui ironicamente propongo di navigare per raggiungere un’isola o la nostra idea di isola.
Le sei fotografie della serie ‘Study for an archipelago’ invece svelano differenti scenari in dialogo tra loro attraverso materiali, tracce e presenze umane volte a ricreare una cartografia più emotiva che reale, in cui relaziono all’isola naturale l’isola sociale tipica del contesto urbano. miart è anche l’occasione per presentare la mia prima pubblicazione edita da ZK/U Press e realizzata in collaborazione con la graphic designer Ilaria Pittassi.
Diciamo che tutta la ricerca è concepita come un arcipelago di contributi e persone che nonostante la distanza – o forse proprio per quella – si sono unite e hanno lavorato insieme in modo trasversale e fluido.
Dov’è la tua isola?
Ovunque io mi trovi ricreo un’idea di casa; è portatile e pieghevole, come la barca che sto progettando ed è quasi sempre in relazione allo spazio che il mio corpo occupa nell’ambiente circostante. Spazio che metaforicamente è ‘acqua’: mi circonda ma anche difende e protegge. Ognuno di noi è potenzialmente la propria stessa isola quindi, ma allo stesso tempo siamo fortemente in relazione, come appartenenti ad un arcipelago.
Geograficamente invece, la mia isola, si chiama Rabbit Island ed è nel Northern Michigan, a 5km dalla costa della penisola del Keweenaw (Lake Superior). Un luogo dove ho trascorso trenta giorni in solitaria per un progetto di ricerca. Un’esperienza che mi ha segnata profondamente, dove ho avuto la fortuna di capire e vivere l’intensità della natura come mai prima. Un luogo protetto dall’uomo e dalle azioni dell’uomo, mai davvero abitato, intonso, unico. Per fortuna una fondazione privata, volta proprio alla conservazione e preservazione della natura e dell’ambiente.