PASSAPAROLA – Il teatro portato fuori – Episodio 1 COMACOSE

Fotografie di Mario Zanaria
Rubrica: Passaparola

Il teatro vive di passaparola. Vive in sala durante lo spettacolo e vive fuori, quando gli spettatori raccontano che hanno vissuto, quello che hanno visto e che vorrebbero che anche altri vedessero.

Insieme al Piccolo Teatro di Milano, lanciamo il format Passaparola: per ciascun episodio, un ospite trascorre una sera a teatro e decide chi invitare allo spettacolo successivo. Ogni puntata è raccontata da vicino attraverso un’intervista e un reportage fotografico affidato a un autore sempre diverso. Si parte con i Coma Cose e con lo spettacolo Anatomia di un suicidio. 

EPISODIO 1 – COMACOSE 

Abbiamo portato i Coma Cose al Piccolo Teatro di Milano a vedere Anatomia di un suicidio, di Alice Birch, nell’adattamento di lacasadargilla, mettendo così in moto la meccanica che inviterà una serie di ospiti d’eccellenza alla scoperta della stagione di quest’anno. Ogni ospite inviterà quello successivo, attivando una catena virtuosa, come avviene nel passaparola.

Da un palco all’altro, ogni tanto siete spettatori anche voi. Che effetto vi ha fatto in questa specifica occasione?

È stato molto “tridimensionale”. Rispetto a quando si sta su un palco, da spettatore si può apprezzare tutto il linguaggio non verbale del corpo, ti rendi conto di cosa genera i tempi emotivi e soprattutto ti puoi immergere in una scena trascurando la temporalità. Quando si performa invece si è molto concentrati sull’attimo che si sta vivendo, è un punto di vista diverso ma ugualmente catartico.

L’architettura di questo spettacolo è piuttosto complessa. Il concetto spazio – tempo viene abbattuto, la narrazione si sviluppa in parallelo e contemporaneamente su tre diversi piani. Lo stesso copione ha la forma di uno spartito, parole e azioni che si ripetono, una coreografia che in alcuni momenti può risultare frastornante, come anche il tema trattato. Che sensazione vi è rimasta addosso quando si sono accese le luci in sala?

L’escamotage narrativo di questo racconto è davvero vorticoso, psichedelico e ti disorienta dal primo minuto. Il tema affrontato è davvero straziante ed essendo una tematica molto intima ci ha generato a tratti empatia, a tratti fastidio, a tratti commozione ma credo che tutto fosse onomatopeicamente orientato a riprodurre il caos dei pensieri. Essi infatti non sono mai archiviati in modo cronologico.

Il suicidio è uno dei più grandi tabù della nostra società. Un soggetto decisamente “pericoloso” su cui basare una pièce teatrale. Cosa avete pensato quando vi abbiamo proposto di andarla a vedere assieme?

Ad essere onesti non conoscendo la storia abbiamo pensato che fosse un titolo (per dirlo alla contemporanea) “clickbait”, che fosse un’ardita provocazione pronta a sciogliersi in una visione atta a stemperare un argomento così delicato. Invece ci siamo trovati catapultati in uno sforzo esistenziale non indifferente.

Carol, Anna e Bonnie, madre, figlia e nipote. Quale tra le tre protagoniste avete preferito e perché?

Sicuramente Bonnie, tra le tre personalità è quella che meno rispecchia un cliché, è quella più razionale e rispetto alle altre due che sono vittime degli eventi, Bonnie cerca di reagire. La sua martirizzazione nel finale conduce all’irreversibilità dei propri traumi…forse egoismo è l’unico mezzo atavico che porta alla sopravvivenza?…eppure la procrastinazione della specie è l’unica forma di immortalità che abbiamo…ma ha senso puntare all’immortalità cellulare?…o sono le cose che lasciamo agli altri a farci vivere in eterno?…tante le domande che ci si pone davanti a questo tema…un tema che terrorizza ma che è indiscutibilmente dentro ogni vita.

Nello spettacolo è molto presente il tema dell’eredità e la casa è il vero “teatro” di questa storia. Avete una casa di famiglia che si porta dietro un intreccio di storie a voi vicine?

Entrambi abbiamo ancora i genitori che abitano nella casa in cui siamo cresciuti da bambini. Tornare dà sempre una sensazione di appartenenza che non si prova altrove, spesso ci scambiamo i ricordi raccontandoci tutte le fasi della vita che si sono susseguite all’interno delle nostre abitazioni e questo genera sempre commozione. La casa è qualcosa di sacro, qualcosa che ti porti dentro anche a distanza, qualcosa che è legato a certe persone, certi odori, certi oggetti…e indiscutibilmente a certe energie.

In quest’occasione lacasadargilla ha messo in scena una co-regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni; una coppia nel lavoro e nella vita. Pensate che condividere il processo creativo sia sempre utile oppure alle volte si deve scendere a compromessi? Ne sapete qualcosa?

Compromesso è una parola che non ci piace, bisogna mediare, ma questo avviene dalle prime ore del giorno quando si prepara la colazione. La confidenza e l’amore per il modo di prendere la vita della persona che ti sta accanto porta a costruire qualcosa che è già nella bozza uno specchio di entrambi. Poi si litiga centomila volte, ovvio, ma quando è stata messa la prima pietra e questa è pesante come una montagna il resto alla fine si assesta sempre.

L’addio non è una possibilità. Nei vostri testi c’è sempre un messaggio di speranza, un moto di resistenza volto a superare le crisi della vita. Però nella vita non va sempre così. Questa cosa vi spaventa?

Le canzoni sono una parafrasi della vita, a volte sono spietate ma quando è così cadono nell’autocommiserazione e tutto ciò è estremamente noioso, nonché facile. La difficoltà è trovare la speranza nelle miserie del quotidiano, interrogandosi su ciò che c’è di positivo nel negativo. L’essere umano è volto al miglioramento, quando non è così è quasi sempre un problema di solitudine, che spesso ha cause ambientali. Una canzone non guarisce, non cura, ma allevia e scandagliare se stessi per trovare uno slancio di positività in cui qualcuno si possa rivedere, al di là del mezzo, è la più difficile forma d’arte possibile.