Fotografie di Mattia Zoppellaro
Rubrica: Passaparola
Torna Passaparola nella sua seconda puntata, il format realizzato da Perimetro e dal Piccolo Teatro di Milano questa volta vede come ospite Jonathan Bazzi al Teatro Strehler per vedere Romeo e Giulietta diretto da Mario Martone.
Mattia Zoppellaro nel pomeriggio ha incontrato Jonathan e il suo compagno Marius per scattare alcune fotografie. Ci siamo poi ritrovati a teatro dove avevamo appuntamento con i protagonisti poco prima che andassero in scena.
Verona come un bosco in cui la vita e la morte, l’amore e l’odio sono continuamente messi in contrapposizione. Sono i grandi temi esistenziali, temi che non invecchiano mai. Si muore d’amore ancora oggi?
Per fortuna il tipo di appartenenza famigliare inflessibile di Romeo e Giulietta non è più così comune, almeno in Occidente. Però l’amore continua a essere un territorio minato, afflitto. E a volte fatale. Penso alle famiglie che rifiutano e vessano i ragazzi LGBT per i loro amori non conformi o ai tantissimi femminicidi, spesso legati all’incapacità degli uomini di reggere una separazione. Scegliere chi e come amare, o anche decidere quando allontanarsi, smettere di amare, può ancora costare la vita. L’amore costruisce mondi, e non sempre chi ci sta attorno accetta questa alterazione intimamente connessa alla questione della libertà, del determinarsi da sé.
Ricorderai la versione glamour di quest’opera in cui Leonardo di Caprio, vestito Versace, si prendeva un’ecstasy prima di incontrare la sua Giulietta durante un party psichedelico. Hai trovato un po’ di Baz Luhrmann anche in questa versione?
Entrambe le versioni conservano il testo originale ambientandolo in un tempo più vicino a noi. Lo spettacolo di Martone si mantiene però in una dimensione più ibrida, sospesa, sia per la suggestiva scenografia silvestre, che rievoca una dimensione fiabesca, che per gli innesti dialogici dal registro contemporaneo, usati soprattutto per contrapporre il mondo degli adulti, imbrigliato nelle logiche da clan, e quello dei ragazzi, le cui parole rimangono invece quelle immaginate da Shakespeare.
Jonathan Bazzi con gli attori di Romeo e Giulietta di Mario Martone
“Ma che lingua parlate?!”, domanda Frate Lorenzo ai giovani innamorati che parlano con le parole di Shakespeare. Il primo amore però forse è proprio così, puro, altissimo. Lo hai vissuto anche tu in questa maniera?
Assolutamente sì. Il mio primo amore è stato un amore lunghissimo, ma del tutto platonico. Mi innamorai di un ragazzo della mia scuola, eterosessuale. Gli scrissi una lettera ma non ci fu risposta. La sua presenza, pur vissuta in quella intangibilità, in quella separazione totale, ha determinato la persona che sono diventato. È stato un fatto più identitario che relazionale, un confronto continuo con un pungolo ideale, lirico. È stata un’iniziazione, dolorosa ma anche rivoluzionaria. Ha cambiato tutto.Montecchi e Capuleti come due baby gang. Un po’ guerrieri della notte e un po’ West Side Story. Due clan contrapposti, una guerra di provincia dove l’appartenenza diventa un valore fondamentale. Ti sei mai battuto per difendere la tua squadra?
Anche se sono cresciuto in un posto in cui appartenenze, gang e scontri sono all’ordine del giorno fin da bambino io sono stato un tipo molto solitario. Fino ai sedici anni non ho avuto amici: ho cominciato ad averne solo quando ho preso a frequentare zone più centrali di Milano. Nel posto in cui sono cresciuto – e ho abitato fino ai ventidue anni – il mio aspetto dava nell’occhio: nei cortili di Rozzano sono spesso stato preso di mira. E non c’era bisogno di look vistosi: ho imparato che già il mio modo di muovermi, di camminare, attivava le pulsioni omofobiche dei ragazzini di Rozzano. La dimensione del gruppo l’ho vissuta soprattutto all’interno di questa tensione: io ero quello da solo che cambiava strada sperando di schivare insulti, sputi e manate.
La disuguaglianza genera odio, questa è la storia dell’uomo. Forse recentemente abbiamo iniziato a capire che la diversità può anche portare valore: qual è l’esempio più virtuoso dei nostri tempi?
Di nomi se ne potrebbero fare tanti, ma io non amo molto il riferimento a esempi e modelli. Ho un’indole instabile e facile alla noia: più che trattenere ciò che è già stato preferisco restare esposto a ciò che sarà, guardare al tempo a venire sperando di essere colpito da altre, nuove vite notevoli, che rimettano in discussione ciò che c’era parso di capire finora. Rivendico un approccio antitradizionale, anche quando si parla di progressismo. D’altronde tutti i cambiamenti quando si stabilizzano tendono a creare problemi: lo stiamo vedendo con l’attivismo digitale e il modo con cui il dibattito mainstream recepisce e monetizza i temi legati alle minoranze. Dall’emancipazione, dal movimento di liberazione necessaria, si finisce per dare vita a nuove rigidità, a contrapposizioni bidimensionali che pretendono di appiattire l’ambivalenza della vita con visioni e formule univoche e intransigenti. Credo questo sia un momento in cui andare alla ricerca invece di ciò che spariglia le carte, di riconoscere il caos su cui tutti siamo sospesi, specie all’interno di noi stessi. Mi interessano più le soglie che i recinti.Jonathan Bazzi con gli attori di Romeo e Giulietta di Mario Martone
Gli adolescenti sono incompresi per definizione. Com’è possibile che ci dimentichiamo quello che siamo stati?
Secondo me non è che ce ne dimentichiamo: copriamo le nostre parti più vulnerabili via via con una serie di strutture difensive. C’è qualcosa di sacro per me nell’infanzia, e anche nell’adolescenza: sono fasi della vita che io sento ancora molto vicine. Mi sento affine alla loro mutevolezza, al senso di entusiastico disorientamento tipico degli adolescenti. Crescendo invece ci viene detto che dobbiamo raddrizzarsi, strutturarci, diventare una cosa sola: per un po’ ci ho creduto, e ne ho sofferto. Perché per natura io sono proprio all’opposto. Oggi rivendico la mia supposta immaturità: il copione dell’età adulta lo rimando al mittente. Ho capito che si può vivere in molti più modi rispetto a quelli che i condizionamenti esterni ci dicono. La negazione dell’adolescente che siamo stati credo passi anche da qui: dal tentativo spasmodico, e spesso violento, snaturante, di interpretare il ruolo dell’adulto che ci proiettano addosso.