Fotografie di Pier Costantini
Intervista di Fabrizio Meris
Perimetro presenta A CURA DI
Una nuova rubrica che incontra e conosce i curatori : i loro progetti, le loro visioni, i work in progress. Uno sguardo a 360 gradi sul contemporaneo, una bussola per orientarci tra immagini e immaginazione, presente e futuro delle arti visive.
Il primo incontro è dedicato a IRENE BIOLCHINI
A QUALE ETÀ HAI COMPRESO CHE ESSERE CURATORE FOSSE UNA PROFESSIONE CHE AVRESTI DESIDERATO PERSEGUIRE NELLA TUA CARRIERA?
Più che di comprensione, parlerei di percezione. Quando uso questo termine, mi richiamo all’eredità del filosofo francese Merleau-Ponty: per me, la curatela è sempre stata un modo di cogliere un senso immanente, prima ancora di giudicare. Per la stessa ragione, credo di aver sempre voluto mantenere intatto un senso di stupore verso le cose, tentando di sfuggire alle griglie professionalizzanti in senso stretto. La curatela, la lettura, la frequentazione degli studi e, infine, la scrittura sono per me parte di uno stesso sentire: qualcosa di vitale e in continuo movimento, “come la respirazione, la procreazione, la crescita”.
SEI GUEST CURATOR AL MUSEO INTERNAZIONALE DELLE CERAMICHE DI FAENZA. PUOI PARLARCI DI QUESTO RUOLO?
Il ruolo di “guest” mi è molto caro, è un modo che ho di intendere il mondo. Nella mia vita ho scelto di non abbracciare l’idea di proprietà, rifiutando sistematicamente qualsiasi volontà di possedere. Anche per questo mi è caro il ruolo di “ospite” perché obbliga a un senso di rispetto delle “case” e delle “istituzioni” in cui si entra, pur mantenendo intatta qualsiasi libertà rispetto alle istituzioni stesse.
Artwork : Marco Ceroni, SLAG, 2020.
PUOI FARCI UN ESEMPIO?
Quando collaboro con un’istituzione, cerco di comprendere la missione del luogo, la sua collezione o la sua programmazione e tento di costruire dei progetti che mettano in relazione questi elementi con una diversa visione del mondo (e la sua radicalità). Questo è possibile lavorando a fianco degli artisti, sviluppando progetti che seguano il senso di un’evoluzione di percorso, spesso fatto insieme e negli anni.
TI OCCUPI PRINCIPALMENTE DI CERAMICA. COME È NATO IL TUO INTERESSE PER QUESTO MEDIUM?
La ceramica mi si è “attaccata” addosso per diverse ragioni: perché per farla è necessario conoscere una rete che si estende molto oltre il solo – e per me asfittico – mondo dell’arte (bisogna cioè conoscere gli artigiani, le botteghe, le industrie); perché ogni progettualità si può sviluppare solo con un lavoro lungo e lento (e questo mi permette di procedere con tempo e cura); perché la componente tecnica-manuale è continuamente ridiscussa da questo medium. La ceramica, come il ruolo di “ospite” del resto, ti obbliga a dialogare con “case” e tradizioni altrui, a lavorare su ciò che si vive quotidianamente, a elaborare un modo di vedere e di sentire che preceda la parola, a fare un’esperienza dell’altro che sia sempre co-esperienza di te stesso.
POTRESTI CITARE DUE NOMI DI ARTISTI CHE ATTUALMENTE UTILIZZANO LA CERAMICA E RIESCONO A ESPRIMERE UNA SENSIBILITÀ CONTEMPORANEA TRASVERSALE?
Il primo è un artista che ho frequentato a lungo (e che per me rimane un costante punto di confronto): lo spagnolo Miquel Barceló. Mi interessa la sua libertà rispetto alla tradizione, una libertà che ha sviluppato conoscendo e frequentando la tradizione stessa. Una tradizione che non viene usata come difesa o citazione, ma come un interlocutore costante per lo sviluppo del sé e la conoscenza del mondo. Un approccio oggi centrale in molte ricerche “altermoderne” che cercano un confronto costante con una tradizione ormai espansa e separata dalle singole identità locali. In questo senso, un altro esempio peculiare mi sembra la ricerca di Chiara Camoni che dichiara: “Quella che sento, per le collezioni archeologiche, è un’attrazione strana, astorica, che non si assesta in un vero sapere, ma che vuole solo nutrirsi in quel momento. Non costruisce un sistema di conoscenza, asseconda in me unicamente un desiderio, che ha anche risvolti ambigui.”
DURANTE I PRIMI MESI POST-PANDEMIA, HAI TENUTO UNA SERIE DI TALK CON ARTISTI PRESSO LO SPAZIO ICA DI MILANO, CHE SI SONO POI TRADOTTI IN UNA PUBBLICAZIONE DAL TITOLO “PER UN MANIFESTO DELLA NUOVA CERAMICA”. CURARE IDEE E NON OGGETTI – MI VERREBBE DA DIRE – RAPPRESENTA UN PUNTO DI VISTA ILLUMINANTE…
Ti ringrazio per aver colto il vero spirito di quel programma: in un momento in cui il fare era sospeso, abbiamo deciso di prenderci il tempo di parlare del fare, di pensare alle ragioni che ci muovono. Abbiamo cercato di essere comunità e per questo tornare alla comunità: parlare in pubblico (e non solo tra di noi durante una cena o un incontro privato) significava essere comunità, riconoscersi come tale. Da qui anche il desiderio di un “Manifesto”: un nuovo modo di sentire, prima ancora che di essere.
TRE BUONE LETTURE PER COMPRENDERE L’ATTUALITÀ?
Rispondo proponendo una combinazione di testi relativamente nuovi e un classico che, nonostante la sua datazione, illumina la necessità di ritornare al sentire prima ancora che alla parola. Tra i saggi più recenti consiglierei: “Inclusioni. Estetica del capitalocene ” di N. Bourriaud, pubblicato da Postmedia books nel 2020; e “Il pensiero del tremore” di E. Glissant, edito da Libri Scheiwiller nel 2008. Sono due testi diversi ma complementari, focalizzati su un nuovo modo di percepire e di esistere nel mondo. Quanto al testo classico, ritengo che “Fenomenologia della percezione” di Merleau- Ponty, pubblicato nel 1945 e riproposto nel 2014 da Giunti Bompiani, rappresenti un’opera fondamentale per chiunque desideri esplorare tematiche legate alla percezione, al sentire, all’immaginare e al vedere.
POTRESTI ANTICIPARCI UN PROGETTO SU CUI STAI ATTUALMENTE LAVORANDO?
I progetti di quest’anno sono intimamente connessi a un evento traumatico che ha colpito molte vite: l’alluvione in Romagna dello scorso anno. In quei giorni, ho sentito e visto una comunità coesa che riconosceva l’arte e la cultura come strumenti fondamentali per riappropriarsi di un’identità. Gli artisti firmatari del Manifesto della nuova ceramica hanno tutti risposto alle immagini di una città intimamente connessa all’argilla (e dall’argilla sommersa). Per me, ogni progresso deve contemplare la collaborazione e l’essere comunità messo in atto, capendo insieme che comunità e territorio non sono parole connesse a un immaginario reazionario e conservatore, ma possono aprirsi alla dimensione partecipata di progettualità autenticamente condivise partendo da alcuni valori comuni (che valicano i confini territoriali).
C’È UN CURATORE IL CUI LAVORO STIMI PARTICOLARMENTE E CHE VORRESTI INTERVISTARE?
Sicuramente un faro per l’idea della curatela come dispositivo generatore di comunità, di appartenenza e riflessione sul genere femminile è la curatrice catalana Rosa Martinez (con cui ho avuto la fortuna di lavorare e che spero di poter incontrare nuovamente).