Pasqua indiana

Photo by Daniele Mari
Testo by Valeria Maggiora

“Ho saputo che sei solo a Pasqua perché non vieni da noi?
Stani mi dà l’indirizzo di casa sua, lo annoto su un pezzo di carta, lo rileggo cercando di memorizzarlo, grato per quel suo slancio così spontaneo, inaspettato.
Milano, domenica di Pasqua. Mi metto addosso una camicia, appoggio la macchina fotografica sul sedile posteriore e guido incrociando invitati a feste altrui che caricano le loro auto di uova per bambini, bottiglie e colombe. Anche io sto andando a una festa, lo realizzo poco prima di arrivare, svoltando in uno stradone di periferia di San Donato: una sequenza ritmata perfetta di edifici tutti uguali. É mezzogiorno. Cerco il cognome indiano sul citofono pieno di cognomi italiani.
“Daniele”
Mi risponde una voce meccanica e dolce allo stesso tempo:
“Ciao Dani quarto piano”.
Le pareti di perlinato dell’androne e le piante sul pianerottolo mi ricordano qualcosa che non so ancora evocare. Mi guardo allo specchio in ascensore, mi controllo come ci si fa prima di incontrare i parenti. La porta è già aperta, mi accoglie Stani con un abbraccio e mi fa cenno di entrare con un gesto della mano, aperta. La casa è grande e luminosa, sa di pulito e pavimenti appena lavati. Il primo sorriso che scambio è con la padrona di casa, Mina. Le altre donne vengono verso di me come uno sciame di farfalle variopinte: gioielli lucenti e ricami arancio viola e azzurri. Ognuna un’espressione dolce di denti, occhi che brillano e ciglia scurissime. C’è una sequenza per le presentazioni. Stringo le loro mani piene di anelli. Sono tre le famiglie riunite oggi. Le donne sono in maggioranza netta, sono loro che scandiscono e regolano quello che succede in casa.
Prima del cibo viene la preghiera. Prima dei sensi, il senso. In questa casa è chiaro il significato del riunirsi. Le persone si riscaldano di se stesse e di quello che creano e rappresentano insieme.
Le donne si riuniscono davanti ad un piccolo altare con una statua di ceramica della vergine Maria. É la padrona di casa a dirigere la preghiera. Qualche secondo di silenzio cristallino e poi Mina, con gli occhi chiusi e le mani giunte, inizia a intonare una litania nella lingua del suo paese di origine. Le altre la seguono. Guardo la statua appoggiata sul centrino stirato, i fiori appena sbocciati nel vaso di vetro e realizzo in quel momento che l’odore di quella casa, l’androne, i soprammobili, gli armadi di legno scuri, i rosari color pastello, tutto mi riporta ad un’atmosfera già vissuta: salotti di donne con capelli bianchi e grembiule dove la fede era ancora qualcosa a cui aggrapparsi e riunire le famiglie era il senso da dare alle giornate. Finita la preghiera ancora quel silenzio pienissimo e poi uno scambio di sorrisi compiaciuti di chi ha fatto esattamente quello che andava fatto, insieme. I loro sguardi ora sono più rilassati, gli occhi ancora più profondi, quasi liquidi. Cerco di fermare quella sensazione. Scatto foto ai loro capelli lunghi e lucidissimi, ai loro sorrisi inermi ma mai impacciati, alle loro mani che sanno sempre dove stare, ai loro volti aperti come fiori.
Il rumore di preparativi in cucina e la tovaglia cerata sono quelli di mille pasque del passato, l’odore è totalmente dissonante: la casa ora profuma di Mangalore.
Meena e le sue parenti scoperchiano decine di pentole liberando aromi di pietanze cucinate in case diverse, “ognuno ha portato qualcosa”. Le donne si muovono tra la cucina e il salotto, portano cibo fumante e pieno di colore offrendolo, complicato e semplice.
É festa, si mangia insieme: tutti si avvicinano al tavolo del salotto, nessuno parla a voce alta, i sapori esplodono in bocca, i bicchieri sono pieni, “prendi un po’ di pane”, chiacchiere, un po’ d’ aria dalla finestra.
Gli invitati fermano il tempo scattandosi foto con il cellulare, sono foto di gruppo, quelle da mandare ai parenti e agli amici lontani per accorciare le distanze.
Nessuna ostentazione, solo ricordi. Mostro loro qualche ritratto scattato poco prima, osservo i loro visi analizzarsi nello schermo. Mi guardano con un misto di stupore e gratitudine. Osservare la verità di qualcuno, fermarla in immagini a volte significa restituire alle persone ritratte una prova della loro grazia. Nessuna ostentazione, solo verità.
Prima che la giornata finisca si gioca insieme: ognuno controlla i numeri sulla sua cartella della tombola, come in un capodanno del 1984.
Mi aggiudico un uovo di Pasqua, ma non lo posso accettare, per oggi ho già vinto abbastanza.