Fotografie di Andrea Camiolo
Testo di approfondimento di Davide Maurizi
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THIS MUST BE THE PLACE è una zine fotografica che nasce da un evento fortuito, un biglietto aereo preso per caso qualche mese prima di quella che si sarebbe rivelata una delle crisi globali peggiori nella storia dell’uomo. La pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown hanno cambiato radicalmente le nostre vite, e in piccolo hanno cambiato anche la mia, costringendomi a vivere chiuso in casa nel mio paese d’origine, a partire dal 9 Marzo 2020. Quando il 4 Maggio è stato annunciato l’inizio delle Fase 2, come tutti i cittadini ho avuto la possibilità di spostarmi all’interno del mio paese e di girare per le strade del centro abitato. È da quel giorno che è scattata in me la scintilla di lavorare su questo territorio, un luogo che ho amato ed odiato sin da quando ero bambino, Leonforte, un comune di circa 10.000 abitanti immerso nell’entroterra siciliano.
Sono passati cinquant’anni dall’ultima volta che ho preso un treno.
Oggi nessuno più prende i treni: da quando il governo ha concentrato i propri fondi sullo sviluppo delle iperstrade, hanno tutti preferito un trasporto più veloce, più sicuro e anche ecologicamente accettabile. Oggi i treni li prendono solo i migranti e i poeti nostalgici.
Avevo dimenticato la puzza di vecchio, i sedili sgualciti, il sudore dovuto dall’assenza di aria condizionata. Mi trovo in un treno semivuoto: siamo solo io e una signora di fronte a me, che a occhio e croce sembra essere sulla sessantina come me.
Ci sono tutti i presupposti per essere costretto a fare ciò che non avevo voglia di fare: attaccare un discorso.
“Dove va?”
La signora, inizialmente assorta nei suoi pensieri, mi guarda e mi dice: “Da nessuna parte: adoro prendere i regionali per osservare la natura dal finestrino, guardare posti dimenticati, perdermi nei miei pensieri…” Ecco la poetessa nostalgica, penso tra me e me.
“E lei? Dove va? È da un bel po’ che non vedo qualcun altro su un regionale…”
“Torno al mio paese d’origine”
“Oh! Da dove viene?”
Sono anni che mi pongono la stessa domanda, e sono anni che sono costretto a dare la stessa sorprendente e strana risposta:
“Non me lo ricordo.”
“In che senso non se lo ricorda? Come fa a non ricordare il proprio paese d’origine?”
“Sono anni che mi sforzo a ricordare, ma niente. Mi sono trasferito quando avevo 9 anni, e da allora né i miei genitori né i miei zii o nonni lo hanno più nominato. Sono morti da un bel po’, e non posso chiedere a nessuno di loro il nome del paese…”
“Ma non può guardare il suo certificato di nascita? Oppure fare una ricerca su Maps…”
“Sono nato in una città non lontano da qui, a quanto pare nel mio paese non c’erano ospedali… su Maps non c’è traccia, come se fosse scomparso dai radar.”
“Mi perdoni, ma allora come fa a capire qual è la stazione giusta?”
“L’unico ricordo chiaro che possiedo è il momento in cui ho abbandonato questo paese: ricordo chiaramente l’itinerario del treno e la struttura della stazione. Per questo ho preso il regionale, per ripercorrere il viaggio del mio trasferimento e poter riconoscere la stazione. Sono sicuro che fosse all’ingresso del paese, che vi fosse un bar/pizzeria e un tabaccaio in zona…”
Mi sto sforzando di ricordare, quando guardando dal finestrino del treno vedo il bar, il tabaccaio e la strada principale che conduceva all’interno del paese.
Immediatamente sento l’odore del panino alla cotoletta che mia madre aveva preparato per il viaggio, vedo mio padre uscire dal tabaccaio con due pacchetti di Marlboro rosse, sento la voce registrata annunciare che “il treno regionale è in arrivo al binario 1”.
“Dev’essere questo il posto”, mormoro.
Prendo il mio zaino, saluto la signora che mi dice:
“Spero possa ricordarsi da dove viene”
“Lo spero anch’io”.
Saluto anche il capotreno, che per l’intera tratta ha continuato ad aprire e chiudere le porte senza che nessuno scendesse o salisse. Quando mi vede allontanare, lo sento borbottare: “Sono anni che nessuno viene qui”.
Scendo in stazione. Mi dirigo verso l’uscio del bar, ma vedo che la porta è sbarrata, così come quella del tabaccaio.
Decido allora di incamminarmi per la strada. Questa è completamente dissestata, piena di buche e le linee segnaletiche sono sbiadite. Dopo un centinaio di metri, ecco il cartello che annuncia l’ingresso nel paese. È completamente rovinato, alcune lettere sono illeggibili: “Be**nuti a ***, il pa*se dell* prugn*”
Della prugna? Ma certo!
Immediatamente vengo investito da una valanga di ricordi.
Penso ai miei anni alla scuola elementare. Le maestre ci ricoprono di informazioni sulle prugne nostrane. “Questa tipologia di prugna la facciamo solo noi!” ripetono, “Nessuno la fa così, la prugna nostrana è unica!”. Io odio le prugne, ne sono allergico, ma le maestre tengono a sottolineare l’unicità del nostro prodotto, lo fanno ogni anno. L’unicità. Non ho mai capito perché gli importi così tanto.
Purtroppo del nome del mio paese non c’è traccia, nel cartello è completamente sbiadito. Decido di andare avanti. Arrivo all’incrocio principale del paese. Ricordo il flusso di macchine che lo occupava e il continuo alternarsi del colore dei semafori. Adesso, la prima cosa che salta all’occhio, è che non c’è nessuno. D’altronde, in delle strade così danneggiate, le auto di oggi non potrebbero circolare.
Qui non c’è proprio anima viva, che sia un vecchio seduto su una panchina o qualche pazzo camminare su un marciapiede. Del resto, non mi sorprende.
Sono anni che i giovani si spostano nelle grandi città, che i giornali denunciano lo spopolamento dei piccoli borghi, che i paesani si lamentano dello stato di degrado della propria casa. Ma è possibile che qui non sia rimasto proprio nessuno?
In questa atmosfera surreale, circondato dal silenzio, continuo a camminare. Sorprendentemente, è rimasto qualche manifesto appiccicato sui muri.
Sono tutti manifesti funebri, e a giudicare dalla carta sembrano essere stati affissi diversi anni fa. Ma con che colla li appiccicano? Mi ha sempre impressionato come un manifesto funebre potesse rimanere fisso per anni. Ha un che di simbolico.
Mentre controllo se riesco a riconoscere qualcuno degli sfortunati, il mio occhio cade su qualcosa di diverso. È un manifesto del comune, abbastanza sbiadito. Mi avvicino per leggere meglio: è il programma della festa del santo.
La festa di Sant’Antonio!
La strada adesso è piena di gente. I soliti anziani che ogni sera passeggiano per questa via, sentendosene i padroni, ora devono condividerla con altri paesani e con tanti turisti. Sento l’odore della salsiccia abbrustolita nei camion, vedo i bambini correre verso il venditore ambulante che mostra un martello giocattolo al costo di 2 euro. Sento le botte che mio cugino mi dà con l’arma appena comprata.
Sento mio zio rimproverarlo. È raro vederlo qui, soprattutto da quando è andato a vivere al nord. Adesso ripete continuamente ai miei genitori: “Beh è tradizione tornare in paese per la festa di Sant’Antonio!”. Tradizione, lo ripete sempre.
Cala di nuovo il silenzio.
Torno a ripercorrere la strada principale. Tutti i negozi, i bar e le pizzerie sono chiusi. Mi accorgo che nonostante la desolazione è rimasta qualche automobile parcheggiata in strada o sotto i portici. Sono tutte auto molto antiche, e sono tutte coperte dalla polvere. Sono rimasti anche dei disegni che qualcuno ci ha tracciato sopra col dito: cuori che testimoniano la nascita di un amore accanto ad alcuni simboli abbastanza scurrili.
La strada sfocia nella piazza centrale. Una grossa chiesa, che non sembra appartenere né al gotico né al barocco, fronteggia un piccolo bar. Mentre provo ad avvicinarmi a quest’ultimo, mi spavento. Il silenzio surreale viene interrotto dal forte frastuono delle campane della chiesa.
“Dai mamma, lasciami dormire!”
“Non le senti le campane? Dobbiamo andare a messa!”
“Mi secca, vacci sola!”
“Non farmi arrabbiare, dai che dopo ti compro la focaccia da Chillemi”
Sono appena uscito dalla chiesa, adesso sto gustando il mio premio proprio qui, da Chillemi, il bar di fronte. I tavoli sono pieni di adulti che si godono l’aperitivo della domenica mattina, mentre io gusto la mia focaccia. Dio mio quanto è buona. Solo qui la fanno così buona. La focaccia dopo la messa era un’abitudine, la mia abitudine.
Provo ad avvicinarmi al bar sperando in una focaccia, ma Chillemi è chiuso. Da anni ormai. Mi giro e mi rivolgo verso la chiesa. Incredibile come in questa atmosfera di desolazione le campane continuino a funzionare. Scandiscono i silenzi, come se stessi partecipando a un funerale che dura da decenni. Continuo la mia discesa, finché non appare di fronte a me l’edificio municipale.
Accanto vi è un manifesto elettorale delle ultime amministrative. È strappato e scolorito, riesco solo a distinguere gli occhi sicuri e il sorriso opportunista di un volto che non conosco, o forse non ricordo; accanto, lo slogan: “cambiamo il nostro paese,
cambiAMO ***”. Niente, illeggibile.
Davanti il municipio, vedo le panchine.
Ogni volta che passo di qua vedo sempre due o tre vecchi seduti su queste panchine. Chiedo a mio padre perché. Lui risponde: “guardano la strada”.
Non capisco cosa ci vedano di interessante nella strada, i vecchi.
Adesso sono con la mia fidata bicicletta. Sono di nuovo qui, alle panchine di fronte al municipio, e vedo un vecchio seduto, immobile, con gli occhi chiusi.
Mi soffermo a osservarlo per un bel po’, finché vedo arrivare un’ambulanza che lo trascina su una barella, e una signora, probabilmente sua moglie, urlare e piangere a dirotto. Sento il brusio della folla, che nel mio paese si raccoglie sempre per questi eventi straordinariamente ordinari. “Ma, è morto?”, continuano a ripetere.
Solo ora penso a come l’ultima cosa che quel vecchio abbia visto prima di morire sia stata proprio la strada. Io intanto continuo a percorrerla, finché non sbuco in quello che mi sembra essere il centro storico. Mi aggiro tra le case diroccate, le scale strette, irregolari e pericolose, guardo i falsi lampioni stile ‘800 che sono stati installati nel 2000 per dare ai turisti l’idea del “centro storico”.
E poi, il palazzo del principe Spatamora.
“Ragazzi, in fila per due, che adesso entriamo nel palazzo.”
Siamo in gita scolastica, mi trovo in mezzo a una folla di bambini muniti di cappellino e di bottigliette d’acqua. Sento battere il sole cocente dei primi giorni di Giugno.
La maestra tenta di mantenerci tutti in ordine, mentre continua a descrivere la facciata del palazzo.
“È importante venire qui, questo palazzo è un simbolo della nostra identità”
Identità, lo ripete sempre.
“Maestra, ma che c’è scritto lì?”
“È un’incisione tratta dal testamento del principe Spatamora, il nostro fondatore. È scritta in latino, ora ve la traduco. Allora: io, Alfonso Placido Spatamora, lascio questo paese alle cure e all’attenzione dei suoi cittadini…”
“…che possano guidarlo con orgoglio e passione, e che facciano brillare e risuonare in eterno il nome di ***”
Fortunatamente ricordo qualcosa di latino, ma anche qui il nome del paese è illeggibile. Do un’occhiata all’orologio, e mi ricordo che fra mezz’ora passa il regionale che mi riporta a casa. Decido allora di risalire la strada di questo paese morto, per raggiungere al più presto la stazione. Poco prima dell’incrocio principale, mi accorgo di un vicolo nascosto tra due alberi non curati. Mi sembra di riconoscerlo.
Lo imbocco e sbuco all’interno di un parco giochi. Il mio parco giochi.
“E quindi te ne vai?”
Silvia mi guarda con i suoi occhioni giganti. Indossa un vestitino bianco, sta dondolando sull’altalena accanto a me. Il parco giochi è vuoto, si sente solo il brusio delle macchine poco lontane.
“Sì, ma mia mamma dice che torneremo”
“Come te lo immagini… il nord”
“Booh, mio padre dice che è freddo, ma poi dice che è meglio di qua”
“Perché?”
“Perché qua fa tutto schifo, dice”
“Ah, e tu che pensi?”
“Io?”
“Te ne vuoi andare?”
“Io… no”
“Perché no?”
“Io qui ho i miei amici, la mia scuola… poi qui è bello, mi piace. Se lascio questo posto, ho paura di non rivederlo più…”
“Hai detto che torni, no?”
“Sì”
“Allora ci rivediamo! Senti, io ora devo andare via che se no mia mamma si arrabbia, buon viaggio!”
Silvia si alza di scatto dall’altalena e mi da un grosso bacio sulla guancia. Io vorrei baciarla, come nei film vietati ai minori che guardo di nascosto. Ma è già andata via.
Sono rimasto solo, mi guardo attorno. Da quando hanno costruito il parco giochi vicino la chiesa, qui non viene mai nessuno, questo posto non lo conosce nessuno. Forse per questo vengo sempre qua. Perché sento che è il mio posto unico e speciale. Perché qui ho passato bellissimi momenti a giocare con i miei amici e a parlare ore e ore con Silvia. Perché qui sono cresciuto e a questo parco giochi devo gran parte di me. Scendo dall’altalena e sento che scricchiola, forse dovrei dire a papà se può aggiustarla. D’altronde, è la mia altalena, è il mio parco giochi.
Adesso quell’altalena è completamente arrugginita, e Silvia non l’ho rivista più.
Esco dal vicolo e torno alla stazione.
Dopo dieci minuti arriva il regionale. Un altro capotreno si sorprende a vedermi salire.
Una signora, seduta di fronte a me, mi chiede: “Da tanto tempo non vedo qualcuno su un treno, dove va?” “Sto tornando dal mio paese d’origine”
“Da dove viene?”
Scoppio a piangere a dirotto.