Buongiorno Direttore!
Una rubrica a cura di Mario Zanaria
Intervista di Sebastiano Leddi
Fotografie di Mario Zanaria
Con Antonio Mancinelli
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La nostra conversazione iniziava quando eri alla guida di Carnale. Da allora, la tua avventura editoriale si è conclusa. Anticipando la difficoltà di mantenere un progetto del genere, vorrei chiederti quali sono state le principali sfide che avete incontrato nel rendere sostenibile una rivista totalmente autonoma.
Carnale è stata una scommessa che ho voluto giocare fino in fondo, consapevole delle difficoltà di un sistema moda che spesso si muove come un Giano bifronte. Da un lato, ci sono stati complimenti su quanto fossimo “avanti”, quasi fossimo un laboratorio estetico da osservare con curiosità; dall’altro, la mancanza di sostegno pubblicitario ha reso evidente una certa miopia sistemica. Sembra quasi che il sistema moda italiano soffra di una sindrome di Stendhal al contrario: resta incantato davanti alle riviste straniere, ma ha una sorta di attacco di panico estetico quando si trova davanti a un progetto italiano indipendente. Ho scelto di lasciare la direzione perché, nonostante l’arricchimento personale che questa esperienza mi ha dato, era chiaro che il terreno non era fertile a cominciare dal team, che ha poi trovato una nuova alleata anche nella musica. Questo spostamento verso mondi apparentemente più liberi la dice lunga sulla condizione della moda oggi: una patina di modernità che, appena graffiata, rivela strutture antiche e reticenti al cambiamento. Resta un interrogativo aperto. Perché un apparato che celebra la creatività italiana con tanta enfasi preferisce investire nelle riviste indipendenti straniere? Esterofilia? Mancanza di coraggio? Forse entrambe. In ogni caso, Carnale è stato, a modo suo, un atto di resistenza, un tentativo di dimostrare che, per parafrasare Benjamin, anche l’aura di un progetto indipendente ha una sua eternità, anche se non viene premiata dal mercato.
Il tuo percorso professionale è indissolubilmente legato al mondo dell’editoria, pur spaziando tra diverse esperienze. In questo panorama in continua evoluzione, vorrei chiederti: quale tipo di editoria pensi possa conquistare le nuove generazioni e diventare il punto di riferimento per il futuro?
L’editoria, per come la conosciamo, vive un momento di transizione darwiniana: sopravvive chi sa adattarsi, ma anche chi riesce a conservare un’identità forte, capace di andare oltre l’effimero. Non credo che le nuove generazioni cerchino solo una piattaforma per sfogliare immagini patinate o leggere didascalie accattivanti: al contrario, vogliono essere coinvolte in un discorso più ampio, che intrecci moda, politica e società. Come scriveva Pierre Bourdieu, “ogni abito porta con sé un significato sociale”, e la scrittura di moda, nella sua forma più alta, è un modo per decifrare questi significati e raccontare il nostro tempo. È una prospettiva che ho coltivato personalmente, quando per primo ho iniziato a scrivere di moda non come cronaca di stagioni e collezioni, ma come una forma di osservazione sociologica e politica. La moda, d’altronde, non è mai stata solo abito: è simbolo, rito, linguaggio. Ho voluto dimostrare che scrivere di moda poteva significare anche interpretare un’epoca, collegare la couture al cinema, l’alta sartoria alla geopolitica, un paio di scarpe al peso simbolico di una rivoluzione. Ciò che conquisterà le nuove generazioni non sarà l’intrattenimento vuoto, ma un’editoria capace di fare cultura: pubblicazioni che abbiano il coraggio di essere intellettuali, complesse, a volte persino scomode. Paradossalmente, è un ritorno alle origini della grande scrittura di moda: quella di una Diana Vreeland o di un Roland Barthes, che sapevano trasformare un capo d’abbigliamento in una chiave per comprendere il mondo. Le nuove generazioni, così frammentate e bombardate di stimoli, non hanno bisogno di più immagini o di più parole, ma di profondità e direzione.
Osservando il panorama della stampa italiana, ci sono realtà che ti colpiscono particolarmente? O, al contrario, ritieni che manchi qualcosa di fondamentale per stimolare un rinnovamento del settore?
La stampa di moda tradizionale sembra cristallizzata in un eterno déjà vu, un repertorio di formule che, per quanto eleganti, non sorprendono più. È come osservare un abito perfettamente tagliato, ma privo di anima, in cui il gesto creativo si piega all’automatismo. Realtà indipendenti come Mousse Magazine, Perimetro, Dust, Sali & Tabacchi o The Collector si distinguono per il coraggio di proporre un’editoria che osa – non solo per i contenuti, ma per il linguaggio. Tuttavia, sono eccezioni che confermano una regola: manca un’editoria che sappia davvero sfidare il sistema, decostruirlo e metterlo in discussione. La moda è una disciplina complessa, che abbraccia politica, economia, cultura e artigianato, ma troppo spesso è raccontata attraverso una narrazione superficiale, ridotta a pura estetica o, peggio, a mera cronaca di collezioni. Il rinnovamento del settore non può che passare da un gesto spregiudicato: rifiutare l’omologazione per creare una stampa che sia, finalmente, all’altezza della moda che pretende di raccontare. Serve il coraggio di pubblicazioni che sappiano guardare oltre la patina, che osino mettere in relazione un ricamo con una rivoluzione culturale, una silhouette con una tensione geopolitica. La moda, come ci insegna Roland Barthes, è sempre “una scrittura”, e chi la racconta deve saper padroneggiare quel linguaggio con l’audacia con cui uno stilista disegna un abito. In Italia, questa audacia è rara, c’è un provinciale timore di osare. Manca un’editoria che sappia mescolare visioni globali e radici locali: forse è per questo che celebriamo progetti stranieri come reliquie preziose, quando potremmo – e dovremmo – essere noi a crearli. Finché questo coraggio non emergerà, il panorama della stampa di moda italiana rischierà di rimanere, come scriveva Walter Benjamin, un “passato che non riesce a passare”.
In passato, i marchi di moda dipendevano dai media tradizionali per comunicare la propria immagine. Oggi, grazie ai social media e ai propri canali digitali, hanno un controllo quasi totale sulla narrazione del proprio marchio. Come giudichi questo cambiamento? Pensi che l’autonomia conquistata dai brand possa in qualche modo compromettere la credibilità della comunicazione di moda?
Il controllo quasi totale che i brand hanno conquistato sulla narrazione del proprio marchio non è di per sé un male; è una dimostrazione di autonomia e intelligenza strategica. Tuttavia, questa autonomia rischia di trasformarsi in una bolla autoreferenziale, priva di contraddittorio e, quindi, di profondità. La moda, per essere credibile, ha bisogno di uno sguardo critico esterno, di professionisti che conoscano davvero la materia—che siano giornalisti o figure trasversali con una competenza solida e una visione lucida. La critica di moda non può essere delegata al marketing o al flusso costante di contenuti social pensati per il consenso immediato. Serve coraggio, serve il talento di saper andare oltre le superfici, di mettere in discussione le narrazioni preconfezionate. La moda è un sistema di significati e chi la racconta deve avere non solo la passione, ma anche le competenze per decifrarli e, se necessario, sfidarli. La credibilità della comunicazione di moda non si basa solo su quanto sia ben costruita una narrazione, ma su quanto sia autentica e consapevole. Ed è qui che entra in gioco il ruolo di una critica indipendente, che abbia la forza di essere scomoda, ma indispensabile. Senza di essa, la comunicazione rischia di ridursi a un esercizio di stile, quando invece dovrebbe essere un atto culturale e intellettuale.
L’era della post-verità ha reso più difficile distinguere il vero dal falso. Quali sono le principali sfide che i giornalisti devono affrontare per combattere la disinformazione?
Nell’era della post-verità, la sfida più grande per i giornalisti di moda non è solo distinguere il vero dal falso, ma riconoscere quanto le dinamiche del sistema stesso abbiano contribuito a rendere la verità un concetto fluido. La moda, dopotutto, ha sempre giocato con l’ambiguità: un linguaggio che parla in metafore visive e narrazioni simboliche, dove il confine tra ciò che è reale e ciò che è costruito è volutamente sfumato. Tuttavia, l’attuale sovrabbondanza di contenuti e la velocità con cui le informazioni si muovono impongono una responsabilità diversa, più urgente. La disinformazione in moda non si limita a fake news o a immagini manipolate; è più sottile, quasi impercettibile. Si insinua nei racconti pubblicitari camuffati da giornalismo, nei discorsi sul “greenwashing” travestiti da sostenibilità, nelle narrative costruite per sedurre il pubblico senza offrire una reale profondità. Per combatterla, il giornalista deve diventare, più che mai, un interprete consapevole, un decodificatore delle complessità. Il primo passo è un ritorno al rigore: verificare le fonti, analizzare i dati, interrogare le dichiarazioni ufficiali con il giusto scetticismo. Ma questo non basta. È necessario anche un cambio di paradigma: riscoprire il ruolo critico della scrittura di moda come strumento di analisi culturale. Il giornalista dev’essere in grado di decifrare questi significati con uno sguardo che sia insieme anarchico, analitico e poetico. La sfida più grande, tuttavia, è resistere alla tentazione della complicità. In un’industria dove il confine tra giornalismo e promozione è spesso poroso, mantenere un’indipendenza intellettuale richiede coraggio. Ma solo così è possibile restituire al lettore una moda che sia, per quanto possibile, trasparente e autentica. La verità, in moda, non è mai un dato oggettivo, ma uno sguardo onesto. E in tempi di post-verità, è proprio lo sguardo a fare la differenza.
Il web ha dato vita a nuove figure professionali che comunicano la moda in modo innovativo, utilizzando linguaggi e formati molto diversi da quelli tradizionali. Quali sono, secondo te, i profili più interessanti da seguire nel panorama digitale?
Il futuro della moda, almeno nel panorama comunicativo, sarà nelle mani di chi saprà maneggiare con disinvoltura sia i codici culturali sia quelli algoritmici. I profili più interessanti, quindi, sono quelli che riescono a unire l’agilità del formato digitale alla solidità di un pensiero critico. Penso a chi riesce a intrecciare storia, cultura e contemporaneità con un linguaggio che non è solo accessibile, ma anche intellettualmente stimolante. In fondo, il grande merito del digitale è aver aperto le porte a una narrazione più sfaccettata, che non si limita a mostrare, ma spiega, indaga e, talvolta, mette in discussione. Sono nate così figure che stanno ridefinendo il modo in cui la moda viene divulgata. Gli “info-encer” sono tra i più interessanti: un ibrido tra influencer e propagatori, capaci di raccontare la moda con una profondità che sfugge alla maggior parte dei profili più seguiti. I social media manager, da parte loro, hanno trasformato le maison in organismi narrativi viventi, capaci di dialogare in tempo reale con un pubblico globale: alcuni sono veri maestri di storytelling, creando contenuti che trascendono la pura estetica per entrare nel campo della semiotica visiva. È qui che emergono i cosiddetti “intello-creator”, profili che, pur navigando nel mare tempestoso dell’algoritmo, mantengono una coerenza narrativa e un livello notevole. Tuttavia, ciò che rende davvero interessanti queste nuove figure non è solo l’innovazione dei formati, ma la loro capacità di scardinare il monopolio del linguaggio tradizionale della moda. Il rischio, però, è che questa rivoluzione resti a metà: troppo spesso vediamo contenuti che si fermano alla superficie, laddove il digitale avrebbe il potenziale di andare molto più in profondità.
L’aspetto più nobile dell’editoria di moda è probabilmente la sua capacità di raccontare storie. Non solo di abiti e accessori, ma di culture, di società, di momenti storici. Le riviste di moda un tempo erano un vero e proprio archivio visivo che ci permetteva di viaggiare nel tempo e nello spazio, di scoprire nuovi talenti e di riflettere sul nostro rapporto con la bellezza e l’identità. Oggi dovrebbero fare lo stesso? Ce n’è ancora bisogno?
Le riviste di moda non sono mai state soltanto un archivio visivo, ma un prisma attraverso cui osservare la società, decifrare le sue tensioni e anticipare i suoi cambiamenti. Lungi dall’essere meri cataloghi di abiti, erano piattaforme capaci di tradurre in immagini e parole il senso profondo del nostro rapporto con il corpo, il desiderio e il tempo. Non erano semplicemente uno specchio della realtà, ma un laboratorio di idee, un luogo dove la bellezza si intrecciava con la politica, la storia e l’arte, creando narrazioni che andavano oltre l’effimero. Oggi, chiedersi se ce ne sia ancora bisogno è quasi una provocazione. Ce n’è bisogno, ma né nello stesso modo né con la stessa funzione. Le riviste di moda non possono limitarsi a replicare ciò che erano un tempo, né a inseguire la velocità e la viralità imposte dal digitale. Se un tempo il loro ruolo era quello di creare un’iconografia per una società in cerca di bellezza, oggi dovrebbero essere una guida attraverso un panorama sempre più complesso, dove la bellezza stessa è messa in discussione, ridefinita e stratificata. Non sono i social a poter assolvere questo compito, né tantomeno i pur sofisticati algoritmi delle piattaforme digitali. Solo l’editoria di moda, con il suo approccio consapevole e il suo patrimonio di linguaggi, può trasformarsi in uno strumento per decodificare la contemporaneità. Ma per farlo deve abbandonare le nostalgie, rifiutare le formule e affrontare il presente con uno sguardo nuovo, che sia insieme analitico e visionario. Più che mai, oggi le riviste di moda devono diventare forum di discussione, laboratori di pensiero, spazi critici capaci di esplorare le intersezioni tra estetica, identità e società. In un mondo che vive di frammenti, c’è un bisogno disperato di narrazioni che sappiano tessere fili, mettere in relazione, costruire senso. Non devono essere né ciò che erano né ciò che i social vorrebbero che fossero: devono essere altro.
I social media hanno democratizzato la moda, ma hanno anche portato alla sovrapproduzione e al fast fashion. Come pensi che le riviste di moda possano contribuire a promuovere una moda più sostenibile, educando i lettori e collaborando con i brand per creare contenuti più consapevoli?
Forse dare la colpa ai social è troppo comodo. È vero, hanno amplificato il ritmo insostenibile della moda e normalizzato l’ossessione per il “nuovo a ogni costo”. Ma se la sovrapproduzione e il fast fashion dominano, la responsabilità non è solo di un algoritmo, ma di un sistema che ha scelto di nutrirsi di quantità anziché di qualità, e di un pubblico che consuma senza riflettere. I social sono solo lo specchio; il problema è il volto che vi si riflette. Le riviste di moda, se davvero vogliono fare la differenza, devono smettere di essere meri strumenti promozionali e tornare a essere luoghi di pensiero critico. Questo significa non limitarsi a celebrare la sostenibilità come buzzword, ma indagare cosa significhi davvero, senza paura di denunciare le contraddizioni anche dei brand che acquistano le pagine pubblicitarie. Devono educare i lettori non con moralismi, ma con contenuti che ispirino una comprensione più profonda della moda come sistema. È necessario collaborare con i marchi, certo, ma senza scendere a compromessi. La moda sostenibile non è un’estetica, ma etica e politica: raccontarla richiede rigore.
Spesso si critica la moda per essere troppo superficiale e concentrata sull’apparenza. Credi che questa critica sia fondata? E se sì, come può l’editoria di moda contribuire a dare un senso più profondo alla moda?
La critica che definisce la moda come superficiale è superficiale. La moda è un codice che parla attraverso le pieghe di un tessuto o il taglio di un abito. Ridurla a mera vanità significa ignorarne il potenziale di narrazione culturale. Il problema, semmai, è che l’editoria di moda ha spesso scelto di assecondare questa lettura riduttiva, limitandosi a celebrare l’estetica senza interrogarsi sulle sue implicazioni. Per dare un senso più profondo alla moda, l’editoria deve tornare a essere un laboratorio critico, capace di mettere in relazione abiti e mondo. Deve parlare di moda come disciplina interdisciplinare, che tocca politica, economia, antropologia, ecologia. Questo significa andare oltre il mero storytelling pubblicitario e abbracciare un’analisi più coraggiosa e consapevole. La moda ha il potere di plasmare identità, di ridefinire il tempo storico in cui viviamo. Se l’editoria saprà raccontare queste storie con profondità e rigore, allora non solo risponderà alle critiche, ma le trasformerà in un’occasione di riscatto culturale.
Se potessi fondare una nuova rivista di moda, quali sarebbero i tuoi obiettivi principali? Quali temi e quali linguaggi vorresti esplorare?
Il mio obiettivo sarebbe creare un organismo vivo, capace di dialogare con il passato, interrogare il presente e immaginare il futuro, in cui la convivenza tra manualità, politica e tecnologia non sia un’utopia, ma una realtà necessaria. La moda è una delle poche discipline che tiene insieme il gesto di cucire a mano e l’intelligenza artificiale, il microcosmo di un atelier e il macrocosmo delle dinamiche geopolitiche. Vorrei una rivista che unisca i dettagli di un capo costruito a regola d’arte con i grandi movimenti della società. Che celebri la bellezza di una cucitura invisibile accanto a un reportage sull’impatto economico globale dell’industria tessile. Un luogo dove la tradizione sartoriale incontri la robotica, e dove la sostenibilità non sia solo un argomento trendy, ma una disciplina che coinvolge scienza, economia e design. Il linguaggio sarebbe multiforme: il rigore scientifico mescolato all’ironia colta, la profondità della saggistica unita alla leggerezza della narrazione visiva. Ma soprattutto, la rivista non vivrebbe confinata in un medium. Sarebbe distribuita su più piattaforme, in modo da adattarsi alle abitudini delle diverse generazioni: la carta per chi vuole un’esperienza sensoriale e duratura, il web per chi cerca approfondimenti immediati, i social media per stimolare il dibattito e raggiungere un pubblico più giovane. Il mio sogno è un’editoria che sia al tempo stesso laboratorio e manifesto, capace di affermare che la moda è un atto culturale. Una rivista visionaria, un ponte tra le mani che creano e le menti che immaginano, tra l’antico sapere artigianale e l’audacia della tecnologia. Come diceva Alexander McQueen, “La moda deve essere qualcosa che ti strappa un grido.” E il mio obiettivo sarebbe esattamente questo: far gridare, ma di meraviglia.