BUONGIORNO DIRETTORE! con Elisa Carassai di Sali e Tabacchi Journal

Buongiorno Direttore!
Una rubrica a cura di Mario Zanaria

Intervista di Sebastiano Leddi
Fotografie di Mario Zanaria

Con Elisa Carassai di Sali e Tabacchi Journal

 

Partiamo dall’inizio. Come nasce Sali e Tabacchi e qual è l’ispirazione dietro al progetto?

Nasce a Londra, durante gli anni dell’università. Io studiavo giornalismo al London College of Fashion, Leonardo – che all’epoca era il mio compagno – studiava grafica al Central Saint Martins. L’idea è nata da una cosa che vedevamo e sentivamo ogni giorno: all’estero l’Italia veniva raccontata con uno sguardo pieno di stereotipi. Volevamo proporre un altro punto di vista, più complesso, più nostro. Non c’erano grandi mezzi, era tutto molto DIY, ma fin da subito abbiamo voluto curare ogni aspetto: immagini, carta, parole. Io sono cresciuta leggendo il New Yorker, per me il long form è centrale. E poi, lavorando già da tempo in redazioni, conoscevo il ritmo bulimico della produzione dei contenuti. Da lì la scelta di fare una rivista annuale. Lenta, ragionata. Un oggetto da costruire durante tutto l’anno.

Quindi Sali e Tabacchi nasce come un progetto personale, senza un piano editoriale o un business model alle spalle?

Nessun business plan. All’inizio era il mio progetto di tesi. Quella scadenza accademica ci ha costretti a concretizzarlo. Abbiamo iniziato a coinvolgere fotografi – quasi tutti italiani che vivevano a Londra – che anche loro volevano uscire dai codici della moda e raccontare altro: cultura, viaggio, folklore. Per due anni abbiamo fatto solo ricerca, poi la scadenza universitaria ci ha dato una struttura. Da lì è partito tutto.

E a un certo punto, però, Sali inizia a reggersi anche economicamente. Quando avete capito che si poteva sostenere?

Molto dopo. All’inizio era un portfolio, un progetto che ci serviva anche per prendere altri lavori creativi. Poi piano piano sono arrivate le prime collaborazioni: sponsor, brand, agenzie. Ricordo il numero 3, lanciato da Massimo Alba, dove è venuta tanta gente. Lì abbiamo capito che la cosa stava crescendo. Abbiamo fatto progetti con Corneliani durante il Festival di Mantova, produzioni per Portofino Gin, advertorial, attivazioni PR. Più recentemente abbiamo lavorato con Fonderia Battaglia e Carhartt, che hanno sponsorizzato l’ultimo numero e l’evento di lancio. Il rapporto con la Fonderia è stato prezioso: ci hanno dato lo spazio, ma è diventato anche uno scambio più profondo, che ha attivato nuove collaborazioni artistiche.

 

Oggi vi muovete ancora con lo stesso spirito degli inizi o avete strutturato di più il lavoro?

Ci stiamo strutturando, ma sempre cercando di non perdere la natura del progetto. Abbiamo registrato il marchio, dato una forma giuridica, costruito una piccola rete. Io e Leonardo oggi abbiamo anche percorsi lavorativi paralleli, ma Sali resta il centro. Stiamo cercando di definire meglio i nostri obiettivi. Per esempio, abbiamo iniziato a lavorare con una business strategist per costruire un piano più solido. L’obiettivo è trovare un equilibrio: riuscire a sostenere il progetto economicamente, senza snaturarlo.

A un certo punto mi hai detto che Sali non è solo una rivista ma è diventato anche un brand. In che senso?

Lo dico con tutte le cautele del caso, ma sì. Sali e Tabacchi è diventato uno spazio più ampio, con una community molto attiva. È un progetto culturale che si esprime anche attraverso eventi, collaborazioni, attivazioni. Vogliamo raccontare storie, ma anche dare occasioni concrete a chi lavora con noi. Con la Fonderia, ad esempio, abbiamo reso possibile la produzione di una scultura in bronzo per un’artista emergente, che oggi gira per mostre in Europa. Poter essere un catalizzatore è una cosa a cui teniamo moltissimo.

In che modo scegliete i fotografi e i collaboratori con cui lavorate?

All’inizio li cercavamo noi, per affinità. Oggi ci arrivano proposte, anche da agenzie grandi, ma preferiamo lavorare direttamente con i fotografi. Spesso si tratta di incontri casuali. Un fotografo tedesco ha visto la rivista a Parigi, ci ha scritto, ci siamo presi un bicchiere di vino. Molte collaborazioni nascono così. A volte contattiamo anche autori apparentemente irraggiungibili. All’inizio Giulia Cavaliere, ad esempio, non ci ha risposto perché si era persa la mail nello spam. Oggi è una delle nostre collaboratrici più vicine.

La dimensione del progetto ora è quella giusta o hai in mente una crescita?

Vorrei farlo crescere, senza fretta ma con una direzione chiara. Mi interessa moltissimo legare Sali anche al mondo educativo, aprire uno spazio, fare programmazione culturale, lavorare con archivi, proporre progetti speciali. Collaborare con brand, sì, ma sempre mantenendo una visione editoriale coerente. Non ci interessa il branded content vuoto. Ci interessa raccontare storie vere, costruire ponti tra mondi diversi.

Senti ancora quella lucidità sul racconto dell’Italia che ti ha fatto iniziare tutto quando eri a Londra?

Forse anche di più. Quando vivi all’estero vedi le cose da fuori, ti stacchi. Tornando in Italia ho capito quanto anche noi ci raccontiamo con una retorica un po’ stanca. Penso alla narrazione dello slow living, che ormai è una caricatura. L’Italia non è solo un sogno da cartolina. Cerchiamo di restituire complessità. Anche attraverso il lavoro d’archivio. Per il primo numero abbiamo cercato per mesi le immagini di Franco Pinna, fotografo di De Martino. Le abbiamo trovate per caso grazie a una mostra dedicata a Fellini. Quella storia è finita nel numero. E oggi penso che quel tipo di ricerca, unita a uno sguardo contemporaneo, sia il cuore del nostro lavoro.

Ti interessa ancora la moda?

Tantissimo. Ma solo quando ha una narrazione. Non mi interessa lo shoot in studio patinato. Mi interessa la storia che c’è dietro a un archivio, a un abito, a una persona. Le storie di moda che pubblichiamo non parlano mai solo di estetica, parlano di persone, di identità. È questo che vogliamo raccontare: immagini che si sentono, non solo che si guardano.