Fotografie di Francesco Faraci
Pier Paolo Pasolini rilasciò la sua ultima intervista, dal titolo “Siamo tutti in pericolo”, il primo novembre del 1975, a Furio Colombo. Poche ore prima di essere ucciso -il suo corpo straziato sarebbe stato ritrovato all’alba del due novembre all’idroscalo di Ostia- criticava gli intellettuali, o pseudo tali, rei di voltare la testa dall’altra parte, di trincerarsi dietro ai complotti per non affrontare la realtà, convinti di voler risolvere le cose isolando le pecore nere. Niente di più, niente di meno di quel che accade oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, in un tempo in cui, forse, non esiste neanche più la figura dell’intellettuale che non sia rinchiuso in salotto, con in bocca un sigaro d un bicchiere di whisky a discutere del vuoto e della crisi della sinistra ma rimanendo nell’ambito delle ipotesi, delle congetture alcoliche, perdendo completamente il contatto con la realtà, quella vera, sporca. La pecora nera.
“con la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la verità.”
Dove sono gli intellettuali e, ancora prima, chi sono oggi gli intellettuali? La mia generazione, quella dei nuovi quarantenni, che salvo qualche eccezione, non è più disposta ad assumersi il peso, l’onere, di guardare alla realtà come materia complessa, di non prendere posizione, trincerandosi alle spalle di una omologazione, di un livellamento spaventoso di tutto ciò che ha a che fare con la Cultura, pensando che basti un murales -per quanto belli e scenografici possano essere- o le iniziative dei weekend che vorrebbero coinvolgere il popolo ma finiscono sempre per convogliare una elìte e che dal giorno dopo sono dimenticate, materiale buono per pulire le coscienze, per sentirsi in pace incolpevoli.
A Palermo, invece, tutti abbiamo delle colpe. La politica, le scuole e borghese com’è questa città, come da sempre è stata, crede di poter trovare il capro espiatorio nelle sue viscere, nei suoi quartieri-ghetto, senza minimamente coglierne le complesse architetture umane che le abitano.
Ho vissuto a mie spese, dopo l’uscita del video “Mediterraneo”, una canzone di Lorenzo Cherubini in arte “Jovanotti”, l’orrore classista di una buona fetta della popolazione. Vedere “la vita”, dove ci si immagini solo delinquenza e mafia, dei quartieri popolari ha aperto una breccia di profondo stupore che non è meraviglia, ma repulsione.
“I poveri, la miseria. Il degrado, i delinquenti. Palermo è le sue chiese, le sue bellezze, non questo schifo” erano solo alcune delle considerazioni che non aprono nessun confronto, non smuovono alcuna critica costruttiva ma denotavano paura, vero e propria voglia di respingere una visione diversa, ma non esclusiva, perché sotto gli occhi di tutti. Una vita che “vive” e si muove e pulsa, a prescindere da uno che la racconti, con le fotografie o a parole. C’è una linea invisibile che spacca in due la città. Una retta del pensiero, un segmento immaginario che
Salvo Licata è stato un cronista del mitico “Giornale L’ora”, drammaturgo e scrittore che, pochi come lui, conosceva le budella di Palermo, la sua gente, come le proprie tasche. Solo chi conosce veramente Palermo sa che in essa dimorano due città: la città bianca e la città nera.
Da quest’ultima prende il via questo progetto fotografico. Un “Poema Umano” per usare il titolo di una raccolta di poesie di Danilo Dolci, che a Palermo, proprio in quella città nera, visse e che la amò a tal punto da metterci da radici.
Perché non si possono non amare certi visi, certi corpi, certe argute intelligenze. Non si possono ignorare interi nuclei familiari e gli odori e le sensazioni che in quei vicoli, in quei quartieri-stato, irrompono prepotenti e travolgono, incantano, chi percorre quei luoghi.
Così, di converso, non si può ignorare che questi stessi luoghi nascondano parecchie insidie. I ragazzi, spesso, sono abbandonati a sé stessi, mutilati dal non poter scorgere all’orizzonte brandelli di futuro. La mafia è sempre viva, in allerta, pronta ad accaparrarseli, a consegnare loro un destino spesso infausto.
La grazia e la ferocia, in questi luoghi, camminano accanto, spesso si influenzano, si scontrano fino a confondersi ma il cuore è vivo, pulsa e nulla chiede se non essere ascoltato.
Ed è questo cuore che pulsa il nucleo di queste fotografie. Non pretendo di spiegare nulla, non hanno lezioni da impartire, né hanno giudizi da emettere.
Le fotografie sono porte aperte sul mondo.
In ultimo, vorrei dedicare questo libro alla memoria di Letizia Battaglia, che per decenni di Palermo è stata la voce visiva, quel corpo nella lotta che ci manca terribilmente. Vorrei dedicarlo a lei perché se oggi esiste questo libro è anche merito suo.