A CURA DI presenta Davide Fabio Colaci

Fotografie di Massimo Zanusso
Testo e intervista di Sebastiano Leddi
Rubrica: A CURA DI

Perimetro presenta “A CURA DI“, la rubrica che incontra e conosce i curatori : i loro progetti, le loro visioni, i work in progress. Uno sguardo a 360 gradi sul contemporaneo, una bussola per orientarci tra immagini e immaginazione, presente e futuro delle arti visive.

Il sesto incontro è dedicato a DAVIDE FABIO COLACI

Partirei da qui: c’è qualcosa che non ti piace del tuo lavoro?

Nell’ambito curatoriale, quello che mi pesa è che in Italia, nonostante una grande tradizione di fondazioni e istituzioni legate alla ricerca, negli ultimi vent’anni si è creato un vuoto. Il progettista è sempre più autonomo. Può essere positivo, ma spesso significa lavorare senza supporto. Io sono fortunato, perché le scuole in cui insegno – il Politecnico, lo IED – sono diventate un punto di forza, dei veri strumenti di propulsione per la ricerca. Ma le scuole oggi sono come avamposti. Le istituzioni pubbliche, le fondazioni, i privati… mancano. E anche quando ci sono, spesso non si spendono davvero. Anche le grandi case di moda, per esempio, si attivano sui progetti solo se hanno un ritorno diretto. Non è necessariamente un male, ma spesso queste operazioni si concentrano su un respiro internazionale, mentre il territorio rimane scoperto.

E alla fine il rischio è che tutto si riduca a una questione di marketing?

Sì, ma quando esiste una parte virtuosa, secondo me bisognerebbe rivendicarla. Io, ad esempio, cerco sempre di avere ingressi gratuiti alle mostre. Troviamo noi i fondi. Anche Extraolimpico, la mostra che abbiamo appena fatto al Politecnico, aveva l’ingresso gratuito. In tre giorni abbiamo fatto tremila ingressi, quando un museo, spesso, li fa in un mese. Quindi non è vero che le nuove generazioni o le persone in generale non si interessano. Siamo noi, come curatori, a doverci assumere la responsabilità di creare le condizioni per includere più persone possibile. Altrimenti ci parliamo sempre tra di noi. Quante volte ti capita di andare a una presentazione e rivedere le stesse persone del giorno prima? Designer, curatori, architetti, fotografi… sempre gli stessi. Dobbiamo uscire da quella bolla. Oggi la globalizzazione non ci ha dato un megafono: ci ha infilati in coni verticali super targettizzati. Invece dovremmo costruire cultura trasversale. Se sei architetto, devi interessarti di fotografia, se fai fotografia magari ti interessa anche l’economia o la filosofia. La cultura del progetto oggi deve essere aperta, deve avere una visione trasformativa. Anche un progetto editoriale o un nuovo ristorante devono partire da un’urgenza, da qualcosa che manca. E la trasformazione non può essere solo tra progettisti.

Quando hai capito per la prima volta di avere questa attitudine progettuale?

Me lo ricordo. Ero stato coinvolto da una persona che stava curando l’allestimento di alcune polaroid scattate a Pantelleria. Una casa di moda molto importante voleva esporle in un angolo di un nuovo edificio di un grande stilista. All’inizio dovevo solo dare una mano, poi per questioni di tempo finì che lo feci io. Lì ho capito che scegliere come appenderle, l’ordine, la sequenza, la posizione, era un lavoro complesso. Una cosa che oggi farei in due ore, all’epoca mi ha preso due mesi. Eppure mi ha fatto capire che il ruolo del progettista è fondamentale anche quando non inventi nulla. Era un progetto fatto con materiali esistenti, ma aveva bisogno di senso. E la cosa strana è che non mi interessava che ci fosse il mio nome. È rimasto quello di chi mi aveva chiesto di aiutarlo. Ma io ero felice lo stesso. Anzi, forse più felice così.

E questa forma mentis la applichi anche nella vita privata?

Ho studiato architettura al Politecnico di Milano, ma ho anche fatto un periodo a Porto, in Portogallo. In quegli anni la scuola era nel suo momento di massimo fermento, con Alvaro Siza, Souto de Moura… era il cuore della nuova ondata portoghese. Ero molto motivato. Quando però sono tornato a Milano, quella spinta mi è un po’ mancata. Ma una cosa l’avevo capita: non avevo voglia di costruire. Costruire mi sembrava, in qualche modo, anche un gesto distruttivo. E infatti, se guardo il mio percorso, ho sempre lavorato più sulla cultura del progetto che sulla costruzione vera e propria. Ho costruito piccoli edifici, su richiesta di clienti, ma sono eccezioni. Ho fatto un dottorato con Andrea Branzi, che non ha mai costruito nulla. Ed è lì che ho capito che ci eravamo trovati. Non ho mai sognato di costruire il nuovo Guggenheim. Mi interessa pensare il progetto come strumento di lettura del presente.

Ti ispira di più uno spazio vuoto o un foglio bianco?

Sicuramente lo spazio vuoto. Mi interessa confrontarmi con qualcosa che esiste già, entrare in dialogo. Non ho paura del foglio bianco, ma preferisco attraversare ciò che è già costruito. L’architettura, secondo me, non è più – forse non lo è mai stata – il linguaggio ufficiale dello spazio. La cultura del progetto oggi si nutre di altri territori. Dalla scienza aerospaziale alla medicina, dalla televisione alla guerra, dallo sport alla sessualità. Sono tutte discipline che oggi influenzano il modo in cui progettiamo. Non si può più parlare solo di forma o composizione. Ecco perché l’architettura degli interni e l’allestimento hanno una marcia in più: sono più veloci, più reversibili. E intercettano prima i cambiamenti. Una scenografia dura tre giorni, ma può avere lo stesso valore di un edificio di cento piani. Il fatto che duri meno non le toglie valore. Il brutto temporaneo fa danni permanenti, diceva un mio maestro. E aveva ragione.

Nei tuoi progetti ci sono elementi ricorrenti?

Mi occupo delle cose che cambiano. Quindi non cerco coerenza formale. Però alcuni elementi tornano: gli oblò, le tende, l’MDF, i materiali di recupero. Mi piace lavorare con elementi che hanno avuto una vita altrove. L’allestimento è solo un passaggio. Una delle critiche che ricevo spesso è che non ho uno stile riconoscibile. Io la prendo come un complimento. Non voglio che il mio lavoro parli di me. “Non vorrei che una cosa che ho fatto dicesse chi sono ma vorrei essere chi sono in tutte le cose che faccio”. Rubo questa frase a Michela Murgia, che diceva proprio così.

Come funziona il tuo rapporto con le aziende?

Di solito mi chiamano per l’allestimento. Poi si accorgono che non hanno i contenuti, e allora li creo io. Da lì è nata la mia figura di curatore. A volte mi chiedono solo i contenuti. Oppure consulenze sul prodotto: per esempio, come riproporre un pezzo di arredo storico oggi. Non si può rifarlo come negli anni Cinquanta. Si tratta di trovare un linguaggio adatto al presente. Non ho mai voluto fare l’art director. È un ruolo che non mi interessa, mi sembra troppo rigido.

Lavorando con i designer, hai sviluppato delle strategie per gestirli?

Pensavo fossero complicati gli architetti, ma designer e fotografi li battono. C’è sempre una componente emotiva, personale, quasi esistenziale. E mi diverte molto, anche se è faticoso. Secondo me il designer sente oggi il peso di dover essere innovativo, anche quando il mercato non lo chiede. E il fotografo vive una trasformazione simile: l’immagine non è più una sua esclusiva. Tutti producono immagini, e questo spiazza. Il mio ruolo è lasciare spazio, dare libertà. Alcuni lo vedono come una mancanza di posizione. Ma io credo che in una mostra corale non si debba cercare una visione unica. Voglio che ogni voce resti distinta. Il pensiero unico nella cultura del progetto è un rischio. Il contrasto, la differenza, il fallimento sono tutte cose da accogliere.

D’accordissimo con te Davide, grazie per questa bellissima intervista!