Raccontaci di quando ti ha adottato Milano e di quando la guardavi da Genova, tua città d’origine. Come appariva ai tuoi occhi?
Era la Milano dei concerti, mi appariva diversa da quella degli stereotipi, della tv che odiavo, Drive In, il Paninaro, Massimo Boldi. Era l’inizio degli anni 90, cominciavo a conoscere amici che si erano spostati a Milano per fare i lavori moderni, quelli da qualifiche in inglese, che da una provincia luccicano di più. Al lavoro alle 10 e pure senza cravatta. Io intanto facevo il magazziniere a Genova, circondato da cinquantenni che si davano del lei e mi chiedevano se le ragazze mi facessero i pompini.
Non ne potevo più.
Da lontano consideravo Milano come una città dove alcuni sogni sono possibili, nel mio caso reinventarmi come persona. Direi che Milano è stata per me una nuova iniziazione.
In pochi mesi ebbi la chance di improvvisarmi pubblicitario in agenzia: senza bisogno di conoscenza e conoscenze. Questo mi colpiva di quella Milano, era possibile buttarsi.
Ma appena mi stabilisco, capisco che un’ombra nera sta arrivando. Il signore della TV si prende il paese proprio in quei mesi. Io intanto al lavoro, a bermi la spremuta con la vodka per non dare nell’occhio del capo salutista e berlusconiano convinto. Osservavo l’inizio di un’epoca di risate pre-registrate, la rivincita dei paninari che andavano a comandare il paese. Ma almeno stare a Milano mi aiutava a capire che il nuovo regime era solo marketing travestito da politica. Uno show tragicomico per fottere soldi ingannando la buonafede di chi sognava aurei milioni di posti di lavoro. A quel punto per me fu fondamentale andare avanti cercando di difendere le mie idee e quel poco di verginità che mi era rimasta.
E il tuo percorso lavorativo? Questo è un tema anche nelle chiacchiere all’aperitivo da cui non si può prescindere.
Venni a Milano per fare un lavoro che appagava una mia parte vanitosa, ma che era anche un canale che mi aiutava a trovare un po’ di autostima. Ero un tipo “sottozero”: insicuro, senza un sogno o una parvenza di ambizione. Diciamo che mi sono inventato un lavoro – in pubblicità – per venire su e che su ho scoperto il resto di me stesso.
Quindi hai avuto un percorso inverso a quello dei così detti “carieristi”.
Avessi avuto una dote da leader, da maschio Alfa che combatte per ascendere nell’organigramma aziendale, magari sarei stato un carrierista, ma io ero preso più dalle mie fantasie e curiosità, forse perché l’onanismo è stato il mio primo amore. A furia di fantasticare una persona perde il contatto con la realtà, ma se non ha figli da mantenere, perché no? Insomma non rinnego nulla di ciò che ho o non ho fatto.
Scrivi e hai scritto libri che parlano di questa città
Iniziai a scrivere libri incoraggiato da un sagace collega che mi leggeva con passione su un blog in cui scrivevo in maniera compulsiva, mi chiamavo “Noncicapisco”. Iniziai a scrivere anche usando l’agenzia, perché avevo 40 anni e volevo riprendermi le notti buttate a lavorare per pubblicizzare prodotti di cui non me ne fregava un cazzo. Il prodotto a sto punto ero io e mi serviva anche ad inventare una forma di amor proprio che non avevo.
Esiste una colonna sonora della tua narrazione di questa città?
A Milano portai con me il culto della musica, chiamiamola alternativa, che mi aveva svezzato e forse salvato, o per lo meno costretto a non accettare ciò che piaceva ai più solo perché era così. Nella mia esistenza erano già incastonati i Casino Royale che da Milano scendevano a Genova per fare i concerti. Ce ne fu uno nei primi 90, credo Al Teatro Albastros, che mi colpì per estetica e suono, eravate tutti dipinti con colori fluo e si iniziava a sentire la vostra mutazione dallo ska al crossover.
Ok basta Casino Royale, dai
Era il 1992. Arrivai a Milano puzzando di fritto, annusavo con discrezione le prime modelle che vedevo in metro e la canzone “Treno per Babylon” mi identificava nel disperato tentativo di trovare un angolo della Milano dei lavori moderni che mi accettasse.
A Milano ho scoperto i remix, la musica elettronica e soprattutto il Plastic, la chance di uscire da solo e andare in un locale dove non dovevi parlare ma solo perdere lucidità e ballare. E se sei etero o gay non è importante.
Come e dove ti muovi in città? Qual’è il tuo Perimetro e quali sono il tuoi tragitti preferiti?
A Milano mi muovo in bici per quell’ossimoro che è la pigrizia, la non voglia di gestire un auto (che poi mi costerebbe). Ho avuto un auto fino al 2000, poi l’ho rottamata perché non la usavo. La bici è bella perché puoi vedere la gente. Di notte guardavo le prostitute negli occhi e altre cose che mi servivano per scrivere. Un tempo, prima del Covid, uscivo di più. Bazzico il Perimetro della mia zona tra Piazza Grandi e Corso XXII Marzo, oppure dove stanno gli amici. Quando ci libereranno vorrei venire a ElitaBAR, bermi tutto quello che c’è e tornare a casa a nuoto sul naviglio.
Sei cambiato in simbiosi con questa città…
Dopo 20 anni nelle agenzie ho iniziato e cercare di riprendermi il tempo perduto. Dai romanzi sono passato al palco con i Monologhi della Fatica, due anni in cui mi sono esibito nudo improvvisando argomenti decisi dal pubblico. Da lì sono arrivato a lavorare nel programma di Rai3 di Edoardo Camurri “Provincia Capitale”. Insieme a cinque amici, ho anche co-fondato la editrice “Edizioni di Atlantide”. Poi la svolta visuale, iniziata tracciando disegni su foto fatte con l’IPhone. Dopo due anni, anche a causa del lockdown, ho iniziato a dipingere giorno e notte. Ora ho anche un gallerista che mi segue, Lillo Bolzani della Galleria Bolzani.
Dici che sei stufo dei social, di parlare attraverso i social e di leggere quello che la gente esterna sui social.
Sono traumatizzato dalla potenza distruttiva che i social esercitano sulla nostra fantasia. Cerco di non scrivere più status, di non commentare le notizie, la politica, perché mi sento una cavia che esprime pareri basati su pareri decisi dagli editori. Come cazzo faccio però a dire la mia sul medio oriente se lì non ci vivo, ad esempio? A me interessa la fantasia, la creazione, che la percezione si liberi da noi stessi, dai vicoli seriosi dell’idea profonda che abbiamo di noi stessi, senza renderci conto che siamo diventati vettori di un conformismo che in cuor nostro sentiamo come anti-conformista.E quindi ho iniziato a disegnare, dapprima su un touch screen. Il primo schizzo fu un riporto di capelli bello grezzo sulla testa di Roberto Saviano e la scritta “riportosempre ciò che dice Saviano”. Ho continuato a disegnare senza averlo mai fatto e mi sono sentito finalmente libero, infantile, delicato, arrabbiato, sognatore o stupido, libero dalle mie fottute opinioni. Ho iniziato anche a vendere, che è bello. Stampavo su carta fotografica quelli che chiamavo DITODISEGNI: il touch screen iPhone mi dava la chance di usare l’indice della mano sinistra, quella mano che alla scuola pubblica mi avevano vietato di usare perché era la mano del demonio. I campioni vincono a venti o a trent’anni, ma per fortuna si può mandare in culo la propria effige statica anche a 50 e ora grazie al Covid mi ritrovo tossico del pennello e della matita (fino a 3 anni fa sapevo a malapena tracciare una casetta col comignolo come fanno i bambini di 4 anni). Tutti hanno mani felici, non è la mano a disegnare ma l’occhio e il cervello e l’istinto.
Ora preferisci dipingere e disegnare, lasciare al tratto e alla sintesi delle tue opere il perché, la domanda o il messaggio…
Anche il palco rimane una parte importante. Considero parole, gesti, opere visuali, figlie di una parte inconscia, una scoperta in pubblico delle parti che per consuetudine, debolezza, ingenuità o inesperienza non ho colto nel corso della mia esistenza. Faccio tutto in ritardo, sono un ex-timido che si è buttato su un palco nudo mentre compiva 49 anni. Dopo il Covid spero di avere la forza e la voglia di tornare subito sul palco: l’ultima performance la tenni in uno spazio artistico in Svizzera, la Rada di Lugano mentre l’Italia stava chiudendo: la performance si chiama “Instant Shaman” col buon Geppi Cuscito al synth e drum machine. Al pubblico consegno delle maschere da me disegnate che mi somigliano, se le mettono e mi accompagnano nella storia dell’uomo. Cercherò da qui fino a quando potrò di disossare ciò che mi fa sentire superiore nell’aderire a principi che mi vengono inculcati più o meno subliminalmente.
Sono tante parole, ma volevo far cogliere quel qualcosa che sta in me, in te, in noi, nel moto perenne che è esistenza di un essere umano, in questo caso a Milano.