Cinema Club è un format che racconta il mondo del cinema attraverso una serie di interviste a registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, produttori. Cinema Club dà voce al cinema d’autore e approfondisce tematiche e visioni oltre che racconti dietro le quinte. Uno scambio di idee e alla scoperta del cinema da una prospettiva diversa.
Una rubrica di Marco Mucig
Foto di Alessandro Treves
Ho intervistato Tommaso Santambrogio a Milano dopo aver visto il suo lungometraggio d’esordio, “Gli oceani sono i veri continenti”. È un film che ha girato a Cuba e che parla di separazione e di come le grandi emozioni si amplificano quando c’è lontananza, e di come resistono a qualsiasi distanza. Siamo partiti dal suo film per parlare del suo percorso, delle sue ispirazioni e del suo personale approccio alla regia
Hai scritto prima le storie e poi hai trovato gli attori o ti sei fatto ispirare da fatti realmente accaduti?
No, no, sono partito dalla realtà. Il mio processo creativo parte dai luoghi, per cui in questo caso ho trovato prima San Antonio de los Baños, che è il luogo dove aveva l’atmosfera giusta, l’architettura giusta, gli spazi che mi interessavano per il sentimento e la tematica che volevo affrontare. Avevo già un’idea della tematica che avevo in mente di affrontare, che era la separazione. E da lì poi ho cercato… ho cercato le persone, le storie.
Ma eri già stato a Cuba prima?
Sì, ci ero già stato.La prima volta quando avevo otto anni, assieme ai miei genitori, è stato il primo viaggio che ho fatto fuori dall’Italia. Mio padre era molto appassionato di Cuba. Poi sono andato là a studiare per un periodo alla scuola di cinema di Cuba e quando ero là ho incominciato a pensare a come relazionarmi al paese dal punto di vista cinematografico. La prima memoria che ho del paese risale a quando da bambino stavo ripartendo da Cuba: ero all’aeroporto José Martí e mentre stavo passando il controllo ho visto questo padre e questa figlia che si abbracciavano, non riuscivano a separarsi, piangevano perché lei stava lasciando il paese e non sapevano se si sarebbero mai rivisti. Questa scena mi si è impressa nella memoria e ho incominciato a indagare sulla tematica della separazione, su quello che è un po’ un trauma collettivo dei cubani che hanno sempre avuto ondate migratorie molto forti, come spesso succede nelle isole, a Cuba poi particolarmente. Quando ero là a studiare nel 2019 ho incominciato a indagare su questa tematica che negli anni è diventata molto urgente perché Cuba ora sta affrontando la più grande crisi migratoria della sua storia per cui quasi il 10% della popolazione ha lasciato l’isola e negli ultimi anni soprattutto i giovani, cioè under 50, under 40.
Quanto è durato il processo?
Da quando ho iniziato alle riprese, quattro anni. Sono stato a Cuba la maggior parte del mio tempo, dal 2019 in poi mi sono in pratica trasferito a Cuba. Facevo otto mesi all’anno là e poi stavo qua quattro mesi, facevo avanti e indietro e poi scrivevo, tornavo, andavo a vedere i luoghi perché appunto partivo da quelli anche dalla strutturazione delle scene, le location e poco a poco è costruita quella che era l’ossatura del film.
Avevo la sceneggiatura, ma avendo avuto un rapporto di lavoro e anche di amicizia, di stima e di fiducia così lungo con tutti i personaggi, nel momento in cui eravamo sul set ci tenevamo la libertà di improvvisare, di cambiare, di andare a ruota libera. Poi i tre processi sono stati differenti perché con i due attori ho avuto un dialogo orizzontale e abbiamo portato avanti proprio uno scambio costante. E i bambini, che era la prima volta che facevano qualcosa nell’ambito artistico, non avevano mai fatto nulla. Con l’altra protagonista abbiamo lavorato molto sulla relazione corpo-spazio, perché lei non ha dialoghi.
Da dove arriva il titolo?
Il titolo è una poesia cubana. Alex (uno dei due protagonisti) mi ha recitato questa poesia a memoria di un poeta marginale. All’interno c’è questo verso che è “Los Océanos son los verdaderos Continentes”, una poesia che tratta di separazione, è quasi un grido d’amore del poeta nei confronti della compagna che lascerà l’isola. Ed è un po’ un grido di speranza perché il sentimento che sta dietro anche questa poesia è che i grandi sentimenti, le grandi emozioni si amplificano quando c’è una distanza, quando c’è una separazione, resistono a qualsiasi separazione. E quindi questo verso mi era piaciuto molto.
Il titolo deve raccontare l’essenza di un progetto. Il film stesso è una ricerca poetica del luogo, della separazione, quindi mi piaceva l’idea di avere un verso come titolo e che il titolo evocasse un’immagine metaforica, simbolica. Secondo me quello che deve fare il cinema è evocare immagini, evocare sentimenti senza essere didascalico, senza spiegare, quindi quella è stata un po’ l’idea, anche per la scelta del titolo, le motivazioni del titolo.
Quindi adesso mi viene da chiederti: su cosa vorresti scrivere il prossimo?
Una bella domanda. Ho delle idee, però c’è bisogno sempre di tempo per sviluppare i progetti e quindi sto facendo ricerca, sto andando nei luoghi, partendo dai luoghi che mi interessano, che a livello di tematica, che voglio affrontare, di vibrazione, di storia, di emozione, racchiudono, hanno qualcosa che secondo me è interessante e poi da lì voglio trovare le storie, affrontarle. Se trovo delle storie con personaggi reali lo affronterò con un metodo simile a questo, se invece non trovo le storie però trovo il sentimento, la tematica, lo spunto, l’affronterò dal punto di vista del cinema di finzione.
Non hai ancora neanche una piccola idea? Non a Cuba però?
No, non a Cuba, no no. A Cuba ce l’avevo un’idea che volevo affrontare, però per le condizioni in cui versa il paese ora non è il momento. Fare questo film è stata un’impresa, letteralmente un’impresa, è stato molto impegnativo, molto tosto. Bellissimo, però non è il momento. Poi vorrei anche cimentarmi con un altro altrove.
Sei nato a Milano, sei vissuto qua, adesso mi dici che sei andato a vivere a Roma. Una cosa che mi sono chiesto è perché hai sentito il bisogno di andare via da qua, perché hai sentito bisogno di andare a Roma. Cosa che manca qua, secondo te?
In questo momento ho scelto di andare a Roma anche perché la mia compagna lavora lì e perché ho voglia di passare del tempo assieme. A Milano cosa manca? Forse tante cose in realtà, dal punto di vista produttivo finanziario banalmente una film commission che funziona, una relazione del cinema sul territorio forte, degli incentivi.
In realtà Milano per me è molto interessante, ci sono sempre legato, ci torno spesso, una volta al mese torno a Milano, però mi piace anche esplorare degli altrove, per me è sempre importante andare anche da altre parti, calarmi in altre realtà. Poi a Roma in realtà mi sono trasferito da poco, non so quanto ci rimarrò, ormai vivo molto alla giornata. Poi in base al nuovo progetto che avrò probabilmente mi muoverò, se il prossimo progetto, che non so, è in un’altra città o è in un paesino o è in un’isola, probabilmente passerò tanto tempo lì. Sono molto legato ai luoghi, per cui devo passare del tempo nel luogo in cui voglio girare. Non è soltanto una ricerca di location, ma è proprio trovare dal luogo l’energia giusta, gli spunti giusti che poi mi portano a strutturare una drammaturgia, una sceneggiatura. Ho capito che come regista ho bisogno di questo. Altri invece scrivono tutto e poi trovano i luoghi in base a quello che hanno scritto. Io invece, forse perché anche vengo dal documentario, parto dai luoghi e mi interessa come processo, perché trovi il ritmo, trovi il linguaggio partendo da quello.
C’è invece chi scrive di sana pianta. Penso a Hitchcock, lui scriveva, faceva lo storyboard, e aveva tutto nella sua testa. Negli studios c’era un’idea di cinema molto più legato al teatro di posa, molto legato all’idea di costruire una realtà dal nulla. Forse anche per i tempi in cui viviamo, a me interessa più relazionarmi con la realtà, visto che comunque fra artificial intelligence, seconde dimensioni, alter ego, un po’ ci si sta slegando, atomizzando anche rispetto alle cose. Per cui a me interessa anche una relazione più concreta con la realtà e con quello che abbiamo attorno.
Cosa guardi ? Prima parlavamo di cinema internazionale, no?
Vedo più film che serie. Serie pochissime, quasi nulla. Film tantissimi, è la mia passione, vedo un sacco di roba e a me interessano più anche le cose più sperimentali che innovano, il cinema che è di commistione tra finzione e documentario. Alcuni autori mi piacciono particolarmente, però in generale vedo dalla cosa più commerciale alle cose più di ricerca, più particolari. Più passa il tempo, più mi interessano le cose di ricerca. A Cannes ho visto l’ultimo film di Miguel Gomes, “Grand Tour”, che è un film incredibile, che ha vinto per la miglior regia. È un film di ricerca, nel senso che utilizza sia il documentario che la finzione. L’ha messo in scena all’interno degli studios come se fosse un film degli anni trenta, facendo dialogare queste due cose, relazionandosi alla storia e alla contemporaneità. Un film bellissimo. Poi l’ultimo film di JIA Zhang-Ke, sempre a Cannes, che è un altro film che parte dalle riprese documentaristiche che lui ha fatto in vent’anni alla sua compagna e racconta il cambiamento della Cina tramite una storia d’amore, sottile, molto delicata, quasi senza dialoghi per tutto il film. Questi sono comunque grandi autori che hanno già una certa età, sono già arrivati, sono già in concorso a Cannes e comunque sperimentano, e comunque provano, si mettono in gioco, cambiano direzioni. A me quello è il cinema che mi interessa.
In Italia c’è qualcuno che ti piace?
Alice Rohrwacher mi fa impazzire, per me lei è la più grande regista italiana. Mi è piaciuto tantissimo “La chimera”, è regia pura, è spirituale, è divertente, ha una recitazione incredibile, ha un lavoro sull’immagine bellissimo. È uno dei film italiani di quest’anno che mi è piaciuto di più, senza dubbio. Mi piace molto Michelangelo Frammartino. Pietro Marcello mi piace tantissimo, è una grande ispirazione. Ma anche Jonas Carpignano che lavora sulla finzione, ma con personaggi reali che interpretano loro stessi. Delle storie di finzione, ma molto vicine alla loro sensibilità. Mi piace anche Andrea Pallaoro, che è un altro regista che lavora all’estero, poi anche di documentaristi milanesi. Ecco, a Milano secondo me c’è tanto documentario interessante, anzi forse la cosa più interessante di Milano è il documentario, cioè Mattia Colombo, Beniamino Barrese, questi registi che lavorano al documentario, comunque sono interessanti, hanno fatto dei bei lavori, mi sono piaciuti molto, molto, molto. Secondo me è un periodo molto fertile anche per le nuove generazioni.
Il cinema che mi ha ispirato tantissimo è quello di Bresson, Tarkovsky, Ozu, Béla Tarr, Edward Yang, questi registi che fanno un cinema incredibile, innovativo, che trascende, che è eterno. Li vedi dopo 40 anni e sono immortali. Quando ho scoperto Kiarostami e Chris Marker, quando avevo 18 anni, mi si è aperto il mondo.
In Italia ci vorrebbe forse un po’ più di coraggio. C’è una tendenza a standardizzare le cose e a non osare, che è una cosa che invece all’estero non respiri. Secondo me il cinema europeo più interessante in questo momento è forse in Portogallo e Romania. Ma ciò che mi stimola e incuriosisce di più viene da fuori dall’Europa, dal sudamerica, dall’iran, dal medio-oriente, dall’asia (taiwan, filippine, vietnam, cina) etc…
E come è stato percepito all’estero il tuo film? E a Cuba quando lo hai presentato?
È andato benissimo, è andato in una marea di festival. A Cuba l’ho presentato al festival dell’Avana, dicembre, poi ho fatto tanti eventi, ora va al secondo festival di Cuba ad agosto. Chiaramente è una delle poche produzioni che sono state realizzate nel paese e quindi che li rappresenta, ha un’importanza legata anche al territorio. Però il film è andato anche molto bene negli Stati Uniti, ora avrà una distribuzione là, in autunno esce in sala. In India è andato benissimo, in Canada, in Grecia, ci sono un sacco di paesi dove ha avuto una risposta molto forte, perché da un lato è un film comunque internazionale a livello di tipologia di cinema, è un film che cerca di essere universale. L’ambizione è anche quella, di trattare una tematica locale, però che in qualche modo tocca tutti, che è una cosa molto difficile, infatti non sono io che posso dire se ci sono riuscito o meno. È molto inconsapevole come cosa, è quello che toccava me. L’unico termometro che hai è la tua sensibilità quando fai ricerca, giri, scrivi. E quello che ti emoziona anche confrontandoti, dialogando con gli altri. Per me è molto importante il dialogo. Anche con i miei collaboratori. Per questo mi piace il cinema, è proprio collettivo come cosa. C’è il direttore della fotografia, il montatore, il produttore… C’è un dialogo costante. Fare il regista è una cosa che impari sul campo, la regia non la impari studiando, ma vedendo i film e provando, riprovando e sbagliando.
E quale è stato il tuo percorso per diventare regista, quindi?
Ho studiato economia, non ho studiato neanche cinema. Poi lavoravo come giornalista da tanto tempo, come videogiornalista, e così ho imparato un po’ di cose. Poi ho fatto un periodo a Parigi dove ho lavorato in una casa di produzione come assistente. Poi ho fatto un po’ di set qua, anche video musicali, pubblicità, come assistente. E poi ho lavorato sui set di molti film italiani.
Tu hai un’idea di fotografia molto precisa, a camera fissa. Com’è collaborare con un direttore della fotografia? Tu hai un’impronta molto forte.
Sì, infatti non è stato facile perché io ho sempre fatto la fotografia dei miei lavori. Poi per “Taxibol”, il mio documentario-mediometraggio, ho co-diretto la fotografia con Lorenzo Casadio, che poi ha fatto il mio lungo. Lui ha studiato alla Scuola di Cinema di Cuba, poi ha fatto vari documentari. Lui era più abituato a fare camera a mano, ha collaborato anche con il DOP di Minervini, ha quello stile là. E quindi ha dovuto imparare come lavoravo io. Anche per lui è stato molto difficile, perché non era più abituato a illuminare in camera fissa, dove lavori sul dettaglio, lavori proprio di fino, hai altre necessità. Non è che una cosa migliore dell’altra, però ha altre necessità, devi essere un po’ più preciso nell’illuminare, nel creare la profondità, a livello di composizione, a livello di corpi, a livello di layers, di illuminazione, devi bilanciare bene. Sul lungo ha capito qual era il mio metodo e ha fatto un lavoro migliore di quello che io avrei mai potuto fare. Ho fatto tanta fotografia, scattavo anche per i giornali, vendevo foto. E poi scattavo per passione, ho sempre scattato in analogico, ero sempre con la camera in mano. Ho moltissime telecamere, fotocamere. Mi piace tantissimo scattare. Mi piace anche fare video diari, per cui utilizzo la Handicam e per tanti periodi ho fatto video diari, filmavo le cose nella mia quotidianità. Facevo dei visual haiku tutti i giorni: 5 secondi, 7 secondi di riprese fisse che lavoravano sull’associazione per immagini – e quindi non sulla trama – per evocare una sensazione, questo è un esercizio che faccio spesso. Mi diverto un sacco, mi ha aiutato tanto a sviluppare l’associazione per immagini, che è la cosa più importante della regia. A livello visivo aiuta molto a rimanere sempre in allenamento. Lo faccio fare anche ai miei studenti, a me piace un sacco.
Insegni? Dove?
L’anno scorso vivevo a Firenze e insegnavo all’Accademia di Cinema di Firenze e quest’anno varie realtà con lezioni sporadiche come SAE e Civiche e un corso di cinema Bocconi. Ho insegnato anche nelle scuole secondarie. È quello che mi dà l’equilibrio dal punto di vista economico.
Prima parlavi del sacro e adesso degli haiku. Ma invece hai che rapporti con la poesia?
Io leggo tanta poesia, che è una cosa che mi piace molto. Leggo tanta poesia. Magari leggo solo una poesia al giorno, mi aiuta molto. Anche mentre giro, tendenzialmente leggo più poesia che narrativa. La narrativa non la leggo mentre sto girando, perché mi distrae, perché mi impegna, invece la poesia è un respiro dell’anima.
La tua protagonista è venuta a vivere in Italia ma per chi da Cuba va negli Stati Uniti c’è un contrasto fortissimo. Passi da un paese, sulla carta, socialista al posto più capitalista, turbo capitalista.
Sono tanti che vanno negli Stati Uniti, infatti a tutte le proiezioni che ho fatto negli Stati Uniti c’erano cubani in sala. Anche a New York c’era un regista cubano, c’erano altre persone cubane. Lì c’è una comunità molto forte, molto presente. Per alcuni è un cambio positivo, perché comunque sulla carta hai più possibilità, dall’altro lato andartene via non è mai facile. Alcuni se ne vanno per scelta altri per costrizione delle condizioni, magari sarebbero voluti rimanere. La mia costumista sta a Miami, l’assistente, la terza assistente di fotografia stanno a Miami, un sacco di persone stanno negli Stati Uniti, c’è anche la famiglia degli attori e anche il bambino è andato negli Stati Uniti. È andato negli Stati Uniti subito dopo che abbiamo finito il film.
La scena di sesso tra i due protagonisti era molto bella, mi è piaciuta moltissimo. Complimenti perché era molto reale.
È successa una cosa particolare perché abbiamo fatto un solo take. Alex ha iniziato a piangere e questa cosa non era prevista all’inizio, però è successa e quindi poi l’abbiamo tenuta perché era bellissima. Si era immedesimato così tanto nella situazione che c’è stato un po’ un crollo. Era una scena delicata ma con il rapporto di fiducia che avevamo siamo riusciti a gestirla molto bene.
E come hai preparato le scene con gli attori? Mi immagino che con alcuni hai fatto un certo tipo di lavoro, con alcuni un altro…
C’è stato un dialogo costante, gli attori sapevano di essere dentro tutto il processo creativo. Con i bambini ho fatto un workshop di quattro mesi per cui due volte a settimana giocavano a baseball, due volte a settimana facevano lezioni con Alex, una volta a settimana andavano con me e Alex in tutte le location. Alex ha fatto anche l’actor coach durante il film, anche di Milagros. Andavo sempre a casa sua, è proprio parte della famiglia. Anche lei è andata negli Stati Uniti ora. Del set, formato da 35 persone, sono andati via 30. Ora sono tutti in Argentina, Spagna, Stati Uniti, Brasile, Italia, ovunque. C’è stata proprio una diaspora da quel punto di vista. Infatti ogni volta che vado a presentare il film incontro qualcuno nei vari posti.
Sono tutti emigrati. Infatti la festa di fine set è stata la festa quasi anche di addio a Cuba, nel senso che poi sarebbero partiti tutti. Era una dimensione molto conviviale, di famiglia, di amici tutti i giovani. Ho lottato per poter portare le mie persone, la mia generazione, perché ha una sensibilità diversa, perché poi la condivisione va anche al di là del lavoro, quindi è un’esperienza di vita. Il cinema ti porta via così tanta energia, così tanto tempo che deve diventare sempre un’esperienza di vita, non può fermarsi al lavoro. Noi ci vediamo sempre, presentiamo assieme il film, giriamo assieme, siamo un gruppo di amici.
Sembra un modo molto bello di lavorare.
Fare il film ci ha legato come esperienza di vita, perché poi condividi anche tutto il resto, che per me è molto bello. Poi esci dai ruoli, nel momento in cui io ero il regista, ero il referente, poi basta, poi si è tutti amici. Questo crea la fiducia con cui poi lavori bene, a prescindere dal lavoro. Secondo me ci vuole nel cinema: creare la tua comunità di persone e una famiglia, in qualche modo. Tanti autori lo fanno, anche quelli più industriali lo fanno. Christopher Nolan lavora sempre con le stesse persone. Il direttore della fotografia è sempre lo stesso. Anche per i registi più grossi alla fine è importante, perché si cresce assieme sotto tutti i punti di vista. Il regista ha questa sensazione che può controllare tutto, questa ossessione, poi in realtà su tante cose non arrivi, sono le altre persone che ti aiutano ad arrivarci, a capire cosa puoi fare, se hai sbagliato qualcosa.
Quindi pensi che creare questa dimensione sia fondamentale per fare un buon film?
Altri hanno proprio un altro approccio, in cui tutti sono delle pedine, che quindi servono per realizzare qualcosa. Spesso funziona, però secondo me, parlando anche con Alice Rohwrwacer, o vedendo il lavoro di Pietro Marcello, con tante persone che creano questa dimensione, si ha bisogno di questo. Questa dimensione fa vedere allo spettatore qualcosa che è oltre un bel film e che racconta una storia molto più larga. La coerenza di un regista nelle sue opere è data anche da quello. Poi a volte devi cambiare qualcosa, però se puoi continui il percorso con le persone con cui sei legato.
Mi sembra che per te sia anche importante lavorare con persone della tua generazione…
Per me è anche importante lavorare con persone che in qualche modo ti corrispondono a livello di momento storico, di vita, di generazione. Penso che noi registi giovani abbiamo bisogno di farlo. Se hai anche un po’ di fame, di sensibilità simile, è bellissimo. Perché il linguaggio evolve col tempo, evolve con le generazioni, con quella che è la contaminazione da varie arti, anche dalla realtà. Quindi se sei dello stesso periodo, stai vivendo e attraversando le stesse cose, c’è più sintonia.