DIRTY BOOTS – VASCO BRONDI

Rubrica: Dirty Boots

A cura di Mattia Zoppellaro
Fotografie e intervista di Mattia Zoppellaro

 

 

Come ti sei innamorato della musica? Il primo ricordo musicale?

Il primo incanto è stato probabilmente con Battisti, non tanto i suoi dischi, visto che in casa mia non c’era tanta musica. Ciò che mi ha fatto innamorare era la passione e il trasporto che sentivo in mia madre mentre lo canticchiava.

Poi ho riscoperto Battisti, più o meno a vent’anni, quando già suonavo, sebbene venendo dal punk, avessi una serie di pregiudizi su molta musica italiana. Inoltre al tempo per sentire un disco te lo dovevi comprare, altro piccolo ostacolo. Però una volta messo nel lettore mi sono accorto che conoscevo tutte le canzoni, perché i suoi pezzi sono proprio nell’aria qui in Italia, e addirittura mi ricordo che pensavo che alcuni brani fossero canzoni diverse, perché Battisti aveva l’abitudine, e soprattutto il talento, di inserire tanti cambi in una singola traccia.

Poi ricordo mia madre che mi aveva raccontato di De André, che lo ascoltavano di nascosto, perché parlava di puttane, droga, e roba più o meno proibita, mi affascinava tantissimo. Molto dopo, da ragazzino, ho sentito in radio De Gregori, con Adelante Adelante, non lo dimenticherò mai, ero rimasto ipnotizzato. Sentii questo rumore di sottofondo di una radio, venni catturato dal testo, pensai che c’erano delle parole che non sembravano appartenere ad una canzone: “l’autotreno carico di sale”, “un arcobaleno sotto le scale”, diceva delle cose strane con questa voce che mi toccava… ero in un campeggio dei Lidi Ferraresi, in questi posti infami pieni di zanzare.

Di che lido parli? Io ho passato la mia infanzia tra Volano e Scacchi.

Non ricordo perché li cambiavamo spesso: Lido delle Nazioni, Lido di Spina… e camminando davanti a una tenda, ma ero piccolo, mi ricordo che ho sentito questa canzone, e anche lì era De Gregori, “Niente da Capire”, cioè proprio sono passato che c’era l’inizio, che diceva “le stelle sono tante, milioni di milioni”, e tra la voce e queste parole… ero rimasto in piedi ad ascoltarla tutta. Poi ancora, a casa di un mio amico, i cui genitori invece avevano tanti dischi, lui ne aveva messo su uno, sempre di De Gregori, mi era piaciuto e me lo son portato via, cosa che non si fa, l’ho rubato, con un grande candore. Ho detto “questo tanto a loro non serve”. Ce l’ho ancora a casa, ascoltato migliaia di volte, era questo live raccolta “Il bandito e il campione”. 

Però devo ammettere che la cosa che mi ha davvero tirato in mezzo in modo attivo, è stato il punk, dove ho iniziato a suonare.

Un bello step, dal cantautorato italiano al punk. Come ci sei passato?

Sono proprio due cose diverse. Del punk quello che mi interessava di più era l’immaginario che si portava dietro. Avevo conosciuto questo ragazzo e ho proprio pensato: voglio che diventi mio amico. Aveva i capelli colorati, i piercing, stiamo parlando comunque di un sacco di anni fa, io avevo 16 anni, 17 anni, un conto che non voglio fare… stiamo parlando di 24 anni fa… Vedevo in lui una vitalità, un’intraprendenza. Essendo di origine irlandese, aveva una formazione anglosassone. Mi passava dei dischi che lui si era sentito tramite la madre, donna molto giovane, che aveva vissuto il punk in prima linea. Lei era tranquillissima e felicissima che noi ascoltassimo quella roba, fumandoci i cannoni in casa, cosa mai vista, a Ferrara soprattutto. E poi mi piaceva proprio come si vestiva, aveva un suo stile, che era quello punk, grunge, che ancora andava, c’era questa eco lunga tra i due movimenti.

Di che tipo di punk parliamo? 

Roba veramente mischiata, si passava dai Rancid ai Green Day, dai Ramones ai Sex Pistols, e poi da lì i Nirvana. C’era questa specie di onda dirompente, le chitarre distorte, le canzoni urlate, il vestirsi in un modo provocatorio, e soprattutto questo manifestare se stessi, come si era, e l’idea che non bisognasse suonar bene, che se faceva schifo era più figo. L’ho trovato estremamente liberatorio. Per me, e per come ero, è stata la cosa più sana che potessi provare… mi ha fatto passare in un attimo tutte quelle paranoie di quell’età, la paura dell’omologazione, di dover fare le cose per bene, di avere l’ansia dell’approvazione altrui. Il punk era esattamente l’opposto, funzionavi se non eri approvato. 

A una band di amici mancava il bassista e il cantante mi chiede: “perché non lo fai tu?” e io ho cercato di spiegargli che non avevo mai preso in mano uno strumento, e lui mi risponde: “va beh ma prendi il basso che poi ha solo quattro corde…”

E di quell’approccio urgente ho ancora il fatto che io sono mancino, ma in questo un posto c’era solo un basso con impugnatura da destro (tra l’altro non sapevo neanche che esistessero strumenti da mancino), quindi ho suonato quello che c’era… e ancora adesso mi porto dietro questa cosa di suonare da mancino strumenti da destro. Mi diverte, perché negli anni lo senti che non è il lato giusto, soprattutto quando cominci a fare cose più difficili. Conosco tanti musicisti che avevano iniziato come me e l’insegnante gli ha detto “no, guarda, se vuoi progredire devi girare e ricominciare dall’altro lato”. Ovviamente è una cosa che non ho mai fatto.

È proprio una roba tipica del punk, trasformare una difficoltà in caratteristica… oppure se pensi anche a Django Reinhardt che aveva due dita eppure suonava come un dio.

Trovi il tuo modo, per me è fichissimo. Come i grandi bluesmen americani che non sapevano neanche come si suonava, si sono trovati questa roba in mano e hanno trovato dei loro modi di percuotere la chitarra, di suonarla solo con due dita, sviluppando una voce che riecheggia ancora fino adesso.

Uno dei punti di rottura del punk è l’immagine. Anch’io sono stato punk, anzi mi sono accorto di esserlo perché mi ero innamorato di una ragazza e volevo entrare nella sua vita.
Era il periodo del grunge. Lei aveva tutte queste magliette con su scritto Clash, Ramones, Sid Vicious… io manco sapevo chi fossero, e lì ho cominciato a prendermi i dischi dei Sex Pistols, e mi sono innamorato di loro. La ragazza me la sono dimenticata, anche perché poi si è messa con un mio amico…
Mi sono buttato completamente nella scena, a partire dall’elemento visivo, abbracciandone il credo. Come dice Don Letts: “Punk is the fight against complacency”.

Infatti, non mi ricordo chi di questi cantanti punk diceva che la tua band funziona se fa schifo anche a tua madre. Quando ho iniziato a suonare, urlavo i miei pezzi, ubriaco fradicio, con le parole biascicate, e i miei venivano di nascosto, si mettevano in fondo (sono molto discreti), mentre sul palco mi cadeva la birra, imprecavo, bestemmiavo, e mia mamma mi mandava il messaggio alla fine con scritto “sei stato meraviglioso”… quindi ho detto, cazzo a me non funziona, nonostante ce l’avessi messa tutta per fare schifo. 

Comunque i miei, seppur non venendo da un mondo artistico, hanno sempre avuto una grande apertura mentale, una grande sensibilità di lasciarmi fare ciò che mi piacesse, si sono sempre fidati. Sempre stati molto semplici e tranquilli, e io mi sono sempre molto arrangiato.

Ho iniziato a lavorare a 17 anni, a 19 anni ero via di casa e ho iniziato a fare il musicista. A 23 ero già molto indipendente, a quel punto erano veramente affari miei.

Raccontami dei tuoi inizi sul palco.

La prima è stata ad un concerto a scuola dove facevamo cover, mi ricordo Territorial Pissing dei Nirvana. 

 

Era la più punk del loro repertorio.

Sì, tre note e si andava. Al tempo ero timidissimo. Ho il ricordo chiarissimo del primo concerto. C’erano quelle robe al liceo classico, tipo autogestione oppure festa di fine anno, un sacco di gente seduta, 300 ragazzi, forse di più. Noi siamo saliti sul palco carichissimi, e io non avevo paura, sebbene fossi un individuo ansioso, anche per il compito in classe. Ma qui il punto non era dover fare giusto, anzi… Il mio batterista non l’hanno nemmeno fatto entrare perché era di un’altra scuola, l’hanno fermato sulla porta, quindi abbiamo preso uno a caso che suonava la batteria… figurati… noi tranquillissimi abbiamo iniziato e alla seconda nota che abbiamo suonato tutti i ragazzi, che invece erano stati lì belli appisolati a sentirsi le altre cover band, si sono alzati in piedi e hanno cominciato a saltare, con i bidelli che cercavano di calmarli. E’ stato pazzesco. Ricordo che sono sceso e che gli altri mi stavano lontano, anche i miei amici, hanno preso paura. Io non ho fatto niente di più che urlare e saltare, forse facendo esplodere quell’energia che prima era chiusa dentro. Quello lì è stato proprio l’inizio, non ho mai più smesso, ancora adesso ricordo bene quella sensazione. Tuttora non ho l’ansia prima di salire sul palco. Viene tutto da quella storia lì.

Scrivi di getto? A livello di processo creativo?

Non proprio di getto, nel senso che quando mi vedono lavorare mi dicono “alla faccia del flusso di coscienza, le tue sono gocce di coscienza” perché per scrivere un pezzo ci metto anche dei mesi, alla fine c’è un lavoraccio dietro a quei testi che vedi. E’ un po’ ispirazione, un po’ artigianato, un po’ attesa che arrivino le idee, c’è tanto lavoro… mi è successo un paio di volte di mettermi a iniziare e finire una canzone di getto.

 

Hai una disciplina alla Nick Cave? Ogni mattina lui alle 9 si mette nel suo studio e ne esce alle 17.

Quando la mia vita è regolare lo faccio abbastanza. In questo tipo di lavoro a volte ti devi dare una disciplina, altrimenti rischi di non combinare un cazzo, e la cosa non è piacevole, anzi è veramente frustrante.

Ho letto l’arte di correre di Murakami e lui descrive il suo metodo e mi son detto, questo lo posso provare: lui si sveglia prestissimo, quindi va a correre un’ora, poi torna e scrive tre ore con il telefono spento, tutto sconnesso dal mondo, tre ore dedicate solamente a quello: Poi nel pomeriggio pensa al resto: email, incontri, tutte le rotture di scatole e le altre cose belle della vita. Lui dice che è impossibile richiedersi un livello di creatività per un tempo superiore alle due o tre ore, altrimenti va a finire che cazzeggi. Io lo so perché per anni a volte mi mettevo lì tutto il giorno e a volte la notte. Conosco tanti che lo fanno ancora e mi dico, minchia, povero te che sei ancora in questa fase, che ti senti in colpa di smettere. In realtà non stai focalizzando, quindi ti alzi e vai a prendere una roba, poi navighi un po’ su internet, poi vai fuori a portare il cane, lavori un’altra mezz’ora… Meglio convogliare tutto lì e poi darti pace. Poi leggi cose, vai a vedere una mostra, stai con gli amici, vai a correre, fai quel che vuoi.

Adesso che sta finendo il tour e arriviamo al 2 dicembre poi mi fermo più o meno per un anno, sto riprendendo la scrittura. Ieri ho avuto la mattina libera, mi son messo lì a guardare un po’ le idee. Posso farlo anche in un posto con un bosco attorno, perché comunque la mia idea perfetta di vacanza è poter fare il mio lavoro e dedicare tempo alle mie cose, alla mia musica.

Ti piace di più il momento live o il momento studio? Cosa ti diverte maggiormente?

Prima sicuramente amavo di più la parte dei concerti. Quando sono partito per questo tour, non vedevo l’ora di esibirmi, poi devo dire che, nonostante me le sia godute tutte, con venti date sarei stato anche a posto. Mi ha fatto pensare che per il futuro potrei ridurne il numero. Un anno così non so se avrò voglia di rifarlo. Magari il prossimo tour sarà in posti più grandi, con meno serate. 

La parte del mio lavoro che ora preferisco non è tanto quella dello studio, ma quella precedente, il processo creativo, da solo, quando la cosa immaginata diventa reale. Mi piace molto anche quella qua con Fede (Federico Dragogna, il produttore n.d.r.), in questo posto che non sento strettamente come studio. Il vero e proprio “studio” lo vedo il momento in cui premi rec, e quello ancora mi è un po’ scomodo. Per questo ultimo disco (Ascoltare Gli Alberi n.d.r.) sono riuscito a gestire questa fase più a modo mio, per esempio siamo andati su da Paolo Cognetti nel rifugio e abbiamo registrato lì. Mi è piaciuto un sacco. Ci svegliavamo la mattina, camminavamo su fino ai laghi ancora ghiacciati a quell’ora, tornavamo camminando con un panorama bellissimo, lavoravamo, mangiavamo tutti assieme. Tutt’altra esperienza che farlo in un ambiente insonorizzato ed asettico.

Questo posto è molto autentico.

Sì lo è. Il mio ultimo disco disco (Un Segno di Vita n.d.r.) così come parte della colonna sonora che ho appena fatto (Ascoltare gli Alberi n.d.r.), l’ho registrato tutto a Ferrara, dove ho preso una casa studio che non uso tanto. Ho registrato lì, con la cucina di là dove ci facevamo da mangiare, ho fatto uno studio dove c’è un unico canale, ottimo, ma uno solo, però, una alla volta abbiamo registrato tutte le nostre cose.

Registrare con un canale unico, vuol dire che comunque permetti allo sporco, all’errore, al caso anche di entrare. Ricerchi spesso questa cosa?

Sì, io la ricerco perché sono convinto, anzi sono sicuro, che la musica sia totalmente trasparente, cioè che tu lì senti anche qualcosa che è al di là delle parole, degli strumenti. Senti l’atmosfera che c’era mentre registravi, l’aria degli anni in cui hai registrato. In teoria tecnicamente dovresti perdere qualcosa registrando in un rifugio di montagna, a livello di qualità, anche se poi secondo me sono tutte pippe da fonici, perché veramente sfido i delfini a sentire la differenza. Sono solo regole, non si perde veramente qualcosa in qualità. E anche se fosse sarebbe bilanciato dal piacere di averlo registrato lì, di averlo registrato a casa mia a Ferrara dove sono tranquillissimo, vado di là a farmi il riposino il pomeriggio se sono stanco, c’hai le finestre, c’è un posto tuo, tutto il tempo.

L’ambiente che “riverbera” sulla musica secondo me si sente, se penso a “Exile on Main Street” degli Stones per esempio.

Il mio loro disco preferito tra l’altro. Sì, ti riesci a esprimere meglio. L’ho notato anche nella scrittura. Quando vado a fare lunghi viaggi e credo di andare là per scrivere, poi non scrivo una riga, torno a Ferrara e butto giù tutto, perché in realtà per aprirti devi essere in un contesto protetto, e io mi sto accorgendo di quello anche nella parte sonora: essere con i tuoi amici a creare in un posto che ti piace… ti senti più libero e  creativo, è una questione anche corporea. Negli anni uno diventa un po’ più sensibile, si accorge delle condizioni giuste, in cui è più facile aprirsi.

Ma ti è capitato di scrivere e di produrre qualcosa in momenti di sofferenza?

Sì, magari a livello creativo, il processo iniziale, poi quando si registra preferisco essere tranquillo. Chakra, che a sorpresa è diventata la mia canzone più ascoltata, è stata scritta in un momento tutt’altro che piacevole, in un periodo dove ero in un monolocale a Milano, un posto da dove ti saresti buttato dalla finestra… in certi periodi in cui te ne succedono una dietro l’altra…

In quel momento lì è venuta fuori quella canzone ed ero nell’epicentro della… un po’ della solitudine, della sofferenza… è uscita questa cosa qua, che però poi ti fa forse anche uscire da lì, quando ho finito di scrivere, mi sono liberato di qualcosa, mi sono espresso, tutto a posto comunque ragazzi.
C
‘è chi ha scritto capolavori sulla carta igienica in carcere, quindi poi sono tutte scuse. Sta di fatto che è comunque uno sforzo abbastanza immane tirare fuori le cose immaginate, se si può si crea la buona situazione, altrimenti ci si arrangia

Trovo una particolare cinematicità nei tuoi pezzi, e poi anche questa tua nuova collaborazione con Cognetti… insomma volevo capire che ruolo ha il cinema nella tua vita.

Ma guarda, mi piace andarci, anzi posso dire che guardo i film solo al cinema, non a casa, per una questione di abitudine, perché la sera leggo, mi dà fastidio vedere gli schermi. Ieri ne ho rivisto uno, giusto perché oggi devo parlarne poi in un podcast. Si chiama “Fire Within”, di Herzog, regista che amo, e io avevo scritto questa canzone che non c’entra niente, che però si chiama Fuoco Dentro. E’ un documentario su due vulcanologi, dedicato a loro. Lui usa solo immagini di archivio. Mi piace andare al cinema, mi piace proprio come uscita, con gli amici, invece che andare a bere la birra, lo trovo più stimolante. Per una questione di tempo non ho mai visto molte serie, tipo, tre, non per snobismo, sono sicuro che ci sono dei capolavori, è che proprio non so dove inserirle nel tempo che ho a disposizione. Ricordo periodi a Ferrara, dove sentivo un po’ la lacuna cinematografica, e quando ho iniziato a lavorare, a fare questo lavoro, e quindi avevo più tempo, andavo in biblioteca.

Andavo a Bologna in sala borsa, dove c’era questo ripiano di dvd, e quindi mi sono fatto, non lo so, tutto il neorealismo italiano, tutto Fellini, poi tutto Truffaut, tutto Jim Jarmusch, andavo a blocchi. Quando trovavo un autore che mi piaceva me lo guardavo tutto, però posso dire che il cinema non è una cosa che mi ha influenzato quanto la letteratura.  A volte non ricordo se ho già visto un film o no, la mia memoria visiva non funziona del tutto. Spesso metto su un film e solo dopo un bel po’… cazzo l’ho già visto! Sarà che anche rispetto a un libro dura talmente poco. Ci sono questi grandi registi che proprio mi sono entrati dentro, tipo Fellini, Jim Jarmusch, ho amato tantissimo Wim Wenders. Adesso siamo andati a vedere Vermiglio, mi è piaciuto tantissimo, di Maura Delpero, questa regista bolzanina che si rifà a Ermano Olmi, che è un altro cineasta che adoro. Di recente ho rivisto Paisà di Rossellini, c’è quest’ultimo episodio che mi era rimasto impresso che racconta una cosa non spesso narrata, che è la guerra di resistenza dalle mie parti, in pianura, perché ancora adesso quando pensiamo ai partigiani, pensiamo alla montagna anziché alle valli del delta, nelle paludi. In questo episodio c’è questo partigiano morto che si vede che galleggia nell’acqua del delta del Po, i fascisti gli hanno messo per dileggio un cartello, i compagni a costo della vita stavano andando a prendere il cadavere per sottrarlo e per dargli degna sepoltura. Quella è un’immagine che mi è rimasta trafitta dentro. Così come le cose di Antonioni, tipo Il Grido, cose girate dalle mie parti. Ecco vedere le mie zone nei film, mi ha sempre colpito tantissimo e forse quello può essere entrato nelle mie canzoni perché mi ha fatto capire che quelle zone lì potevano essere raccontate, potevano essere epiche.

Il tuo legame comunque con Ferrara in particolare è ancora forte. 

Mi viene da dire sempre che è una forza respingente, una forza magnetica allo stesso tempo.

 

Cos’è che ti respinge? 

È un posto da cui volevo scappare quando ero ragazzino. Poi invece ho comprato casa a Ferrara, anche se non la uso così tanto. Lì ho l’unica mia base in questa vita ancora totalmente nomade. Lì ho gli strumenti, lo studio, i libri, in generale è un posto che sento mio. A Ferrara ho la mia famiglia. Poi allo stesso tempo se ci sto più di due settimane di seguito, vien voglia di…

Sono cresciuto a Rovigo, e l’ho sempre trovato un grandissimo vantaggio. Venire da piccoli posti che ami comunque, ma un po’ ti stanno stretti. Ti porta questa grande voglia di conoscere il mondo, di provare, di uscire. Conosco molta gente che è nata a Londra, a Roma, a Parigi, gente che poi ha fatto cose belle, però trovo che siano nate con uno svantaggio…

Lì è difficile anche solo immaginarselo come debba essere. Conosco molta gente di Milano, qui hanno i loro amici delle medie, i genitori… Da una parte deve darti anche pace avere delle radici in una città così. Noi della provincia per contro siamo sempre un po’ dilaniati. Se tu fossi di Milano dici, vabbè, questa è la mia città, prendo la casa… io una casa mia qui non la prenderò mai, a parte che costa talmente tanto che il beneficio del dubbio lo tolgo… però sicuramente venire dalla provincia, vivere in un posto che non ti intrattiene, è una grande fortuna, cioè ti impone di inventarti qualcosa. Sembra banale da dire, però se vuoi che succeda qualcosa la devi fare tu. A me e ai miei amici, era chiarissimo ed effettivamente le cose le facevamo noi: il festivalino di musica, da ragazzini, imparare a suonare… poi mi sono letto un milione di libri. Tra l’altro, al tempo alla provincia dovevamo unire l’assenza totale di internet, dei social network, anche quello non so cosa voglia dire, avere quell’intrattenimento costante a quell’età, invece che leggere i libri magari sarei stato ore con il cellulare in mano in preda a questa dipendenza… per questo a pensarci bene non so se adesso, ai giorni nostri, la provincia funzioni ancora come fattore positivamente respingente.

Quella cosa lì che diceva Benjamin, la noia è la soglia delle grandi cose, per me è proprio un motto.

Hai una sorta di bisogno quasi fisico di tornare a Ferrara? 

È esattamente così. Quando a volte sento un certo malessere mi chiedo: come mai? Cos’è? E dico, effettivamente è un mese che non torno a Ferrara, adesso mi organizzo, vado qualche giorno, e mi calmo, a livello psicologico. E a volte mi si manifesta anche fisicamente. Un po’ come quando vai dall’osteopata, torni che ti sei messo a posto. Ascolto questi segnali.

Tra l’altro passando molto tempo a Milano mi viene voglia di uscire dalla città. Andare nei boschi, nella natura. Adesso ho questo posto tra il ramo del lago di Como e la Grigna, ho preso questa casetta perché quest’anno mi faceva veramente troppa paura tra un concerto e l’altro, a luglio e  agosto, stare qui in città: E’ una zona che ho sempre frequentato, le camminate i rifugi che ci sono lì sopra, e adesso ho appunto preso una casina dove vorrei soggiornare durante I miei periodi Milanesi, fare avanti e indietro da lì.

Quando è troppo che non sto in un bosco, e questo mi accadde settimanalmente, ho bisogno di tornarci.

A volte capitano i periodi dove non scrivo e non imbraccio la chitarra, se non per i concerti, e anche lì sento un malessere, come se mi mancasse qualcosa di fisico. Quindi prendo la chitarra e non so se è perché la suono che sto meglio o se è perché non lo faccio che a volte non sto bene.

 

E tu hai mantenuto con gli amici con cui hai fatto la formazione?

Eh sono andati via a quasi tutti, adesso io ho un amico stretto con cui sono proprio cresciuto e che vedo sempre, l’altro mio amico vive in Alto Adige in realtà perché insegna lì, però torna anche lui, ha questa sindrome. Poi ho altri amici, si sono create queste compagnie più eterogenee, magari in gioventù non ci conoscevamo, avendo anche età diverse. Adesso ho quelli che vivono lì, che sono rimasti lì, tanti miei amici invece li vedo veramente, a Natale, periodo in cui cerco di essere a Ferrara.

Ad esempio a Rovigo il periodo più bello, oltre a Natale, è la Fiera, quando, non si sa perché, tornano amici andati a vivere a Roma, Londra, Parigi  

Non lo sapevo della Fiera di Rovigo. 

 

No, ma poi non andiamo mai alla Fiera, andiamo al bar… 

Ah ok, è quello che c’è un po’ lì… 

 

Però in quel momento ci sono tutti, e siamo molto eterogenei, ognuno fa una roba diversa. Lo trovo quasi purificante. Qui a Milano, che piaccia o no, comunque quando esci parli sempre, di lavoro, del progetto, anche durante l’aperitivo più innocente ti rendi conto che stai facendo network! Mentre a Rovigo…

Non ci sono fotografi… 

 

Non ci sono fotografi!

E per me è uguale, non ci sono musicisti con cui chiacchiero di musica… Poi i miei amici sono proprio anche attenti a non… Cioè non mi fanno domande su queste cose, come se capiscano che non ho voglia di parlarne quando torno lì. E poi anche per loro è un po’ strano, cioè è stato strano che io abbia fatto questa cosa qua, che abbia continuato a farlo. Per tanto tempo, per esempio, non venivano neanche ai concerti, cioè li vedevo prima e dopo, ma non mi chiedevano di venire, io non glielo chiedevo, avevo bisogno di preservare questa sensazione… Davvero per i primi anni non sono mai venuti a un concerto, anche strano, me ne rendo conto, ma lo apprezzavo. Ci eravamo capiti su questa cosa. 

Viaggio tanto, incontro personaggi di cui avevamo il poster in camera… e I miei amici non mi fanno mezza domanda… abbiamo bisogno tutti di ricongiungerci così. Ecco, è un posto dove non è troppo cambiata la percezione degli altri nei miei confronti, rispetto a quando ero conosciuto in città perché ho sempre lavorato nei bar serali, sempre pieni, come  quello dei miei fratelli (Korova n.d.r.). Per un certo periodo ero più conosciuto per esser stato il barista che non il musicista.