Fotografie di Massimo Zanusso
Intervista di Emilia Jacobacci
Rubrica: Passaparola
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Per il quinto episodio di Passaparola, il format che racconta il teatro portato fuori, realizzato in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano, siamo andati a vedere ONE SONG – HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE IV di Miet Warlop in compagnia di Lidia Carew. Vi raccontiamo com’è andata.
ONE SONG – HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE IV è uno spettacolo corale in cui le performance individuali trovano senso e armonia in un’unica grande composizione collettiva. Un’esaltazione delle diversità, come valore da condividere nell’arte come nella vita, che è anche al centro del tuo percorso. Cosa ti ha colpito di più di questo lavoro?
I miei primi pensieri sono stati: “Questa è l’esatta rappresentazione della società in cui viviamo in questo momento, della necessità di iper-performare”. Come se lo studio e la passione in un unico percorso non bastassero più, oggi bisogna dimostrare di poter fare tutto e bene, non puoi permetterti di rallentare o di “non fare”. Mi ha messo molta ansia, ma allo stesso tempo ero rapita dall’incredibile preparazione mentale e fisica degli artisti su quel palco.
Il corpo è lo strumento centrale dell’azione sul palco, in un crescendo di forte impatto emotivo che porta a un continuo superamento dei propri limiti: come performer in che modo hai vissuto la relazione con il tuo corpo?
Il mio corpo non è stato in grado di arrivare fin da subito ai livelli che speravo di raggiungere quando ho cominciato a ballare. Ho iniziato la formazione accademica solo a 17 anni e sono riuscita a capire il mio potenziale atletico molto dopo. Quando ho preso piena consapevolezza di questo ritardo, è stato difficile. Il ruolo della ballerina mi ha sempre portata a giudicare severamente ciò che vedevo riflesso allo specchio e a mettermi a paragone con chiunque incontrassi, ma quando ho capito i miei limiti, i miei punti di forza e ho imparato ad accettarmi, ho iniziato a essere più indulgente con me stessa.
Miet Warlop porta sul palco un insieme travolgente di adrenalina, sudore, fatica ed energia, che nasce però da un grande lavoro di disciplina e coordinamento in cui nulla è improvvisato. Una sintonia fondata sull’attenzione reciproca e sull’ascolto costante l’uno dell’altro che, anche fuori dal palco, è un’indicazione per ognuno di noi: pensi sia un percorso possibile o un’utopia riservata all’arte?
Penso sia un percorso possibile da attraversare con arte. Cioè credo che l’arte, e in particolare quella che riguarda la conoscenza del corpo, sia uno strumento che con dedizione e costanza ti avvicina in maniera incredibile all’ascolto dell’altro, oltre che di te stesso. Riesci a sviluppare una sensibilità che in pochi altri modi si può raggiungere. Ci vuole pazienza e tempo e non molti ce l’hanno. Quindi è questione di priorità e scelte.
Il tempo gioca un ruolo determinante nell’azione: i rintocchi del metronomo scandiscono ogni movimento di quella che, in scena, sembra una competizione sportiva. Una gara in cui, un po’ come nella vita, la vera sfida è quella con se stessi: nel tuo cammino, qual è stata la sfida personale più difficile da superare?
La sfida più grande che continuo ad affrontare è l’immaginario delle persone e della società che frequento. I miei obiettivi e le mie aspirazioni mi vedono in ruoli che spesso non sono stati precedentemente tracciati e proprio per questo inizialmente non mi viene data credibilità o supporto. Ma leggendo Il Cigno nero di Nassim Nicholas Taleb ho capito che gli eventi improbabili vengono riconosciuti solo a posteriori, e per questo ho imparato a fidarmi del mio istinto e a non dubitare troppo delle mie intenzioni e delle mie idee, perché potrebbero portare a risultati unici e di successo.
ONE SONG è uno spettacolo per certi versi estremo, immediato e coinvolgente che ci porta a riflettere sulla nostra relazione con gli altri. A un certo punto della tua vita hai sentito che la tua esperienza potesse essere utile agli altri e hai iniziato un percorso da attivista per l’abbattimento degli stereotipi e il riconoscimento del valore delle diversità: quali credi siano ancora oggi i pregiudizi più difficili da sradicare in questa direzione?
Il pregiudizio nei confronti delle diversità è causato dalla paura del cambiamento e dal timore che il futuro sia diverso dal passato. Ma il diverso arriva perché tu, noi, ogni giorno, evolviamo, cambiamo, mutiamo in forme, colori e contenuti. Accettarlo aiuterebbe a capire meglio chi siamo, chi incontriamo sulla nostra strada e a evitare inutili violenze verso noi stessi e gli altri.