Fotografie di Giovanni Battista Righetti
Intervista di Fabrizio Meris
Rubrica: A CURA DI
Perimetro presenta “A CURA DI“, una nuova rubrica che incontra e conosce i curatori : i loro progetti, le loro visioni, i work in progress. Uno sguardo a 360 gradi sul contemporaneo, una bussola per orientarci tra immagini e immaginazione, presente e futuro delle arti visive.
Il terzo incontro è dedicato a ELISA FULCO
Tra le numerose attività di cui ti occupi, ricopri il ruolo di curatrice indipendente e co-curatrice insieme a Antonio Leone del progetto “Spazio Acrobazie”, sostenuto da Fondazione CON IL SUD e dalla Fondazione Sicilia. Quali sono progetti chiave del tuo percorso curatoriale?
Partirei dal progetto Acrobazie, che è stato sicuramente il più significativo per la mia formazione, che è diventato nel tempo una sorta di manifesto: un modo di guardare la realtà che rivendica il piacere di saltare da una disciplina all’altra, collegando e associando mondi diversi. Durante Acrobazie, dal 2003 al 2011, ho lavorato all’interno dell’Atelier Adriano e Michele dell’ospedale psichiatrico Fatebenefratelli San Colombano a Lambro, mettendo insieme gli autori dell’Atelier con artisti contemporanei attraverso la formula del workshop. Da questa esperienza è maturata la consapevolezza e la fiducia che fosse possibile rendere comunicanti arte contemporanea, welfare e cultura d’impresa; il mondo profit con quello del no profit. La mostra Il Cinema con il cappello. Borsalino e altre storie che ho ideato durante il periodo in cui sono stata curatrice della Fondazione Borsalino è stata un’altra importante palestra, perché in questa occasione mi sono cimentata nel rendere contemporaneo il passato, portando nell’archivio linguaggi e sguardi tipici dell’arte contemporanea.
Cosa è emerso da questi esperimenti culturali che avevano il comune denominatore di legare l’arte al mondo dell’impresa?
Proprio attraverso la pratica artistica ho capito sul campo che cosa fosse e che cosa dovrebbe essere la responsabilità sociale d’impresa, in cui prendersi cura di un archivio, o di una comunità, è parte di un’analoga visione, che presuppone cura, investimento e tempo. Il tentativo di legare insieme welfare culturale e innovazione sociale mi ha guidato poi nell’ideazione del progetto pilota L’Arte della Libertà che ho curato insieme ad Antonio Leone all’interno del carcere Ucciardone, partendo dal workshop con gli artisti per attivare relazioni e produrre opere.
Come è nato Spazio Acrobazie, un laboratorio produttivo e di riqualificazione attraverso la mediazione artistica a Palermo?
Il progetto è un po’ la somma di tutte le esperienze precedenti, perché recupera lo spirito di Acrobazie e dei workshop con gli artisti, aggiungendo l’esperienza di formazione di Curare i curanti attraverso l’arte contemporanea portata avanti con l’Azienda sanitaria di Palermo, e la sperimentazione avviata con l’Arte della Libertà. Il nuovo progetto, curato da me e da Antonio Leone, ha ampliato i target, coinvolgendo, oltre al carcere Ucciardone, il carcere minorile e l’esecuzione penale esterna, spostando l’attenzione sulla produzione di opere che diventano veicoli di comunicazione sociale, e avviando progetti di riqualificazione di spazi e di relazioni all’interno di strutture detentive in cui le dinamiche sono spesso esplosive.
In un progetto come Spazio Acrobazie, rivolto a un pubblico e a una comunità specifica come quella dei detenuti, qual è il ruolo del curatore e della curatela?
In questo tipo di progettualità, il curatore gioca un ruolo centrale perché di fatto deve far dialogare in modo armonico mondi differenti senza snaturarli, partendo dalla scelta dell’artista che deve essere giusto per quel contesto. Inoltre, differentemente da quanto si creda, i destinatari non sono solo le persone detenute ma tutte le famiglie lavorative coinvolte (operatori penitenziari, socio-sanitari, culturali). Trattandosi di progetti artistici la leva estetica non può mancare, al contrario va rafforzata soprattutto se si vuole generare cambiamento sociale. Per riuscirci è necessario coinvolgere tutte le persone attraverso l’adozione di una visione comune, rendendo accessibili le informazioni e comunicando sin dall’inizio gli obiettivi che si intendono raggiungere.
Puoi condividere due collaborazioni significative che avete realizzato, illustrando come i workshop abbiano portato all’emergere di opere artistiche vere e proprie? Quali sono i valori emersi e che sono stati indagati?
L’esperienza più lunga è stata con Loredana Longo che in occasione dell’Arte della Libertà ha lavorato sul tema della libertà insieme al gruppo misto producendo tutte le opere durante il workshop all’interno del carcere. Attraverso installazioni e performance, che ha mostrato durante la mostra Quello che rimane a Palazzo Branciforte, ha spinto a riflettere su chi di noi è veramente libero.
Spazio Acrobazie si è invece inaugurato con il wallpainting prodotto nell’area verde dall’artista Paolo Gonzato durante il workshop all’Ucciardone. In questo caso Gonzato ha messo a disposizione la sua griglia per comporre insieme dei motivi, in cui casualità e progettualità hanno dato vita a un’installazione permanente, che è stata particolarmente sentita proprio perché destinata alle famiglie e ai bambini. Tutti hanno partecipato attivamente seguendo l’energia nascosta dell’entropia, in cui le differenze si dispongono armonicamente insieme.
Cosa hai imparato da questa esperienza?
Ho rafforzato la convinzione che ogni progetto porta con sé una dose di “su misura” che è frutto dell’ascolto, del rispetto del contesto e dal gruppo all’interno del quale si lavora. Che bisogna fare degli adattamenti e aggiustamenti in corso d’opera, che quello che ha funzionato potrebbe non essere più adeguato. E questa consapevolezza porta con sé il non abbassare mai la guardia, perché le opere e i progetti li fanno le persone e il loro stare bene è fondamentale. Senza fiducia non si può costruire nulla.
Quali sono le sfide che si possono incontrare in Italia solcando un percorso semi-indipendente che cerca di distinguersi in esperienze innovative?
Nella mia esperienza il non avere un percorso lineare mi ha a tratti fatto sentire sbagliata, fuori posto, sino a quando non ho compreso che proprio lo stare “tra” le cose è il mio punto di forza. Tutti miei progetti hanno come denominatore comune l’aggregare tra loro diversi contenuti di ricerca che vengono quasi sempre sperimentati sul campo. Ho sempre provato grande interesse per le aree di confine, la malattia mentale e l’arte, l’arte e l’impresa, insieme al bisogno di interagire con la realtà, dotando di nuovi significati le opere, ricercando sempre nuove interazioni anche attraverso processi di formazione, o attraverso la riqualificazione degli spazi.
Cosa pensi che le istituzioni possano fare per migliorare il supporto a iniziative come la vostra?
Sicuramente occorre guardare di più a modelli adottati anche da altri paesi. Rispetto ai paesi anglosassoni e nord europei, siamo ancora indietro in termini di politiche e di utilizzo delle pratiche artistiche in luoghi fuori dai circuiti artistici. I bandi delle Fondazioni bancarie rappresentano un’opportunità per progetti come il nostro, così come quelli del MIC. Dal mio osservatorio, mentre il sociale ha da tempo imparato a progettare inglobando aree del culturale, l’arte contemporanea spesso resta a guardare perché incapace di capire come unire i puntini e collegare tra loro realtà differenti. Non c’è nessuna formazione che aiuta a guidare i processi di innovazione sociale, che possono beneficiare anche delle pratiche artistiche. Ci sono ancora molti pregiudizi, se non vere e proprie resistenze, nel mettere insieme arte, impresa e sociale.
Quale percorso consiglieresti a uno studente che desidera intraprendere questa professione?
Studiare, fare ricerca, ragionare in una logica di rete, imparare a creare e a gestire alleanze intersettoriali, inseguendo una formazione ibrida perché ritengo che per stare in questo mondo, che esula dalla curatela d’arte canonica, bisogna maturare competenze che spaziano dallo storytelling alle soft skills, al management. In Italia ancora non esistono percorsi dedicati, è partito di recente un master di welfare culturale, ma sempre più si va in questa direzione. Basta guardare i bandi europei e anche quelli italiani che promuovono e sostengono non a caso l’intersettorialità.
Tre letture consigliate per comprendere l’attualità ?
Nudge. La spinta gentile del premio nobel per l’economia Richard Thaler, che adotta l’economia comportamentale come leva per cambiare e motivare le persone. Aggiungerei anche Economie e narrazioni di Robert J. Shiller, per capire come le storie sono dappertutto e ci condizionano anche se non sembra. E da mancina non posso che sostenere le teorie di Michel Serres. In particolare quelle enunciate nel libro Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente.
C’è un curatore il cui lavoro apprezzi particolarmente e che vorresti intervistare?
Un curatore che seguo sempre con interesse è Olivier Saillard, mi interessa il modo in cui rende vivi gli abiti e gli archivi di moda e di come sconfina nella pratica artistica anche attraverso la performance.