Fotografie di Alan Maglio
Rubrica: CHAIN

Ero sicuro che nessuno mi avesse notato mentre varcavo il cancelletto di ferro. Rapido, a passi serrati avevo attraversato il piccolo cortile davanti all’edificio, dirigendomi verso la scala C come indicato nella mappa. Fin lì ogni indicazione fornita era stata corrispondente, schematica e corretta, come doveva essere. All’inizio non usavo appunti scritti, tenevo tutto a mente. Questa volta mi avevano fatto avere la piantina dello stabile, cosa che avveniva solo per appartamenti particolarmente importanti.

Uscii dall’ascensore cercando di non far rumore, ritrovandomi sul pianerottolo di fronte a cinque o sei porte. Quella accanto al vano scale avrebbe dovuto essere quella da aprire, ma poi lessi il nome sulla targhetta appena sopra lo spioncino. Dabrowski. Non corrispondeva. Immaginai che al primo rumore di serratura la porta si sarebbe spalancata, mettendomi di fronte a una donna polacca di cento chili dallo sguardo interrogativo puntato dritto verso di me.

Durante i sopralluoghi assegnavamo un numero progressivo alle porte per poterle identificare, contandole in senso antiorario. In fondo a sinistra vidi quella che probabilmente il mio collega aveva designato come “posizione uno”, quella in cui sarei dovuto entrare. Lui raccoglieva le informazioni e si occupava di fornirmi la copia delle chiavi. Il mio compito era quello di finalizzare il lavoro di preparazione, entrando in casa d’altri.

Tesi l’orecchio quasi appoggiandolo alla superficie di legno. Nessun rumore dall’interno. Infilai la mano in tasca cercando la chiave. La introdussi nella toppa e cominciai a girare con il movimento più lento che potessi produrre. Non è detto che una chiave che entra nella serratura poi di fatto gira e la apre, in particolare se si tratta di una copia.

Ascoltai il rumore del meccanismo metallico con un certo sollievo. Il mio intuito mi aveva detto bene ancora una volta, era quella la “posizione uno” ed ora potevo finalmente entrare. Socchiusi la porta piano, assaporando con una certa ammirazione il paesaggio all’interno.
Nella poca luce che filtrava dalle tapparelle abbassate riuscii a vedere l’arco in salotto.

Era una di quelle abitazioni rimaste ferme nel tempo, mai rinnovate, piene di oggetti che raccontano la vita dei loro proprietari. Stanza dopo stanza avrei potuto cercare indisturbato. Ma ebbi appena il tempo di aprire del tutto la soglia e fare un passo dentro la casa, che mi accorsi di una presenza alle mie spalle. Avanzai di un metro per posizionare il mio corpo del tutto all’interno dell’ingresso, poi mi voltai.

Un uomo anziano colmò del tutto lo spazio che ci separava e si fermò davanti a me. Rimase lì a guardarmi con una richiesta di spiegazioni disegnata sul volto. Come fosse la cosa più normale del mondo, mi rivolsi a lui in modo cortese ma deciso.
“Sì? Mi dica.”
Mi rispose lasciando poche chances al mio tentativo di recita.
“Beh, questa è casa mia.”

Si ringraziano Stefano Tanda e Enrico Cerri, e Best House Immobiliare e Laura Gilardelli per la cortese concessione della location