A CURA DI presenta Carlo Spinelli

Fotografie di Rafa Jacinto
Testo e intervista di Sebastiano Leddi
Rubrica: A CURA DI

Perimetro presenta “A CURA DI“, la rubrica che incontra e conosce i curatori : i loro progetti, le loro visioni, i work in progress. Uno sguardo a 360 gradi sul contemporaneo, una bussola per orientarci tra immagini e immaginazione, presente e futuro delle arti visive.

Il quinto incontro è dedicato a CARLO SPINELLI

Carlo Spinelli racconta il cibo con la stessa passione con cui lo studia. La sua è una fame diversa, meno istintiva e più ragionata. Un’ossessione che lo ha trasformato in uno dei narratori gastronomici più originali in Italia.

Carlo, sei uno studioso di storia e cultura dell’alimentazione, un divulgatore-scrittore, un consulente gastronomico. Da dove nasce il tuo interesse per il cibo?

Scrivevo di musica su Rolling Stone, avevo una rubrica dove intervistavo chef con un mp3: mi raccontavano una ricetta in base a una canzone. Era il 2004-2005, la figura dello chef non era ancora mediatica come oggi. Ho iniziato contattando cuochi stellati come Uliassi e Bottura, che rispondevano entusiasti. Mi aprivano le porte, mi ospitavano. Allo stesso tempo, per un’intervista con un musicista indie dovevo aspettare mesi, passare per manager e uffici stampa. Così ho capito che la cucina era un mondo più accessibile, più entusiasmante. Ho colto l’opportunità e mi sono spostato sulla gastronomia.

Da dove nasce l’idea di indossare queste maschere durante lo shooting con Rafa?

Il mondo dell’enogastronomia è uno spettacolo, ormai presente in ogni tipo di media e canale di comunicazione. Per questo sono tra i fondatori di Foodmetti, una società che si occupa di miscelare fumetti, animazioni, food & beverage, per ampliare il gioco e intercettare un target che di solito non è così interessato al cibo. Bisogna togliere la maschera delle banalità, della noia e della superficialità dell’enogastronomia, e metterci la maschera del supereroe!

Oggi lavori come consulente gastronomico per TV e radio. Cosa significa esattamente?

In pratica aiuto a costruire contenuti. A MasterChef, ad esempio, collaboro alla definizione delle prove, suggerisco cuochi da invitare, creo challenge come i pressure test. Mi chiedono trend, nomi emergenti, “Vorremmo uno chef biondo, gay, specializzato nel vegetale, brasiliano, zoppo”. E io attingo dal mio database mentale: “Ecco Paulo Cuimbro do Sarmiento”. Per Caterpillar su RAIRadio2 ho raccontato qualche avventura gastronomica, anche su Rai2 mi è capitato di lavorare per un programma comico, Pour Parler. Il cibo, ormai, è ovunque.

Quanto ti senti un animale onnivoro?

Meno di quanto sembri. Prima era pura gola, ora il mio approccio è intellettuale. Non mangio per fame, mangio per curiosità. Ogni pasto è un esperimento, una ricerca. Quando vado da un grande chef e assaggio 15 piatti, è una masterclass. Ogni ingrediente nuovo che provo è un pezzo di un puzzle che si compone. Dopo vent’anni ho costruito una memoria gustativa enorme: riesco a prevedere il sapore di un piatto prima di assaggiarlo. Per me mangiare è un atto di studio continuo.

Ti diverti a immaginare il gusto prima ancora di provarlo?

Sì, è come per un fotografo che vede una luce, un volto e già immagina la foto. Lo stesso vale per gli chef: sanno che vogliono raggiungere un certo gusto prima ancora di cucinarlo. La cucina è un linguaggio, e ogni ingrediente ha un suo significato.

Quante volte vai al ristorante in una settimana?

Dipende. Mediamente, direi un terzo dell’anno lo passo al ristorante. Ci sono settimane in cui giro l’Italia provando due o tre posti al giorno, altre in cui sto a casa e sperimento da solo. Quando viaggio, provo di tutto: ristoranti stellati, osterie di quartiere, street food. Ma poi a Milano mi chiudo in casa e mi metto a cucinare, perché a quel punto sento il bisogno di elaborare quello che ho provato.

Hai mai fatto assaggiare ai tuoi figli cose assurde?

Sono stati “iniziati” molto presto. Quando erano piccoli abbiamo viaggiato tanto in Asia, e loro mangiavano tutto: balut, placente, insetti. A due anni e mezzo mia figlia ha mangiato il balut – l’embrione d’anatra filippino. Non ho mai voluto fare l’italiano che impone la cotoletta ai bambini, volevo che scoprissero il mondo con la bocca.

Ti senti parte dell’industria del cibo o sei un outsider?

Ho la fortuna di stare su più livelli. Da una parte sono il coordinatore editoriale di ItaliaSquisita, e quindi bazzico l’eccellenza della cucina contemporanea, ma poi collaboro anche con grandi aziende, faccio consulenze per MasterChef, lavoro con colossi come Barilla o Endemol. Dall’altra, ho contatti diretti con piccoli produttori artigianali, gente che fa fermentazioni in casa o coltiva l’aglione della Val di Chiana. Il mio ruolo è muovermi tra diverse “industrie”, senza rimanere intrappolato in una sola.

Perché le trattorie a Milano stanno scomparendo?

Colpa dell’aumento delle materie prime e della logica del low-cost. Dagli anni ’80, molte osterie hanno smesso di comprare dai piccoli produttori per abbattere i costi con la grande distribuzione. Ma così hanno perso autenticità e si sono autodistrutte. Parallelamente, i grandi ristoranti Michelin hanno mantenuto vivo l’artigianato alimentare. Poi, con Expo e il boom creativo di Milano, le osterie sono state marginalizzate. Alcune hanno resistito—penso ad Arlati o Abele—altre si sono evolute, come Ratanà, che usa ingredienti di qualità senza rinunciare alla tradizione. Ora, però, qualcosa sta cambiando: grazie a giovani chef, si sta tornando a una grande tradizione rielaborata.

Ho sempre pensato che gli appassionati di calcio amino più la narrazione della partita che la performance sportiva. Secondo te, cosa sarebbe il cibo senza il racconto?

A livello pop, oggi il racconto è tutto. ItaliaSquisita, per esempio, è esplosa perché per la prima volta ha mostrato cosa c’è dietro la cucina d’autore. Il food entertainment ha avvicinato il pubblico al mondo gastronomico, e negli ultimi anni il livello di consapevolezza è cresciuto. Prima si diceva: “Ma perché questi piatti sono così piccoli?”. Ora le persone sanno che dietro una ricetta c’è una ricerca. Certo, il racconto può essere ingannevole, ma nel complesso ha aiutato la cultura gastronomica a evolversi.

Quindi siamo andati oltre lo show e ora si cerca il gusto vero?

Esatto. Dopo anni di spettacolarizzazione, il pubblico è più maturo. MasterChef sta prendendo concorrenti sempre più forti, il pubblico vuole tradizione, ma ben raccontata. Il food pop continua ad esistere, ma oggi si torna a cercare il sapore prima dello show.

Mi hai fatto venire fame. Alla prossima, grazie!

 

Un ringraziamento a Mariencò Milano per gli spazi.