RETROSCENA con Luca Bigazzi

RETROSCENA
Una rubrica in collaborazione con Milano Film Fest

Testo e intervista di Sebastiano Leddi
Fotografie di Pier Costantini

Con Luca Bigazzi, Direttore della fotografia

 

Ho conosciuto Luca Bigazzi nel 2002, quando ero uno studente alla Scuola di Cinema Televisione e Nuovi Media che oggi si chiama Luchino Visconti.
Le sue lezioni mi hanno aperto la testa, facendomi capire molte cose sul cinema e sull’immagine. Iniziare con lui questa rubrica, Retroscena, era più che doveroso. Luca è uno dei direttori della fotografia più premiati in Italia, con sette David di Donatello e collaborazioni straordinarie con registi come Paolo Sorrentino, Silvio Soldini e Gianni Amelio. I suoi lavori, da “La grande bellezza” a “Il divo”, da “The Young Pope” a “L’amico di famiglia”, sono diventati esempi di eccellenza cinematografica riconosciuti a livello internazionale.

È un orgoglio che questa città sia il suo punto di riferimento e che lui stesso riconosca Milano come un luogo di grande potenzialità cinematografica.
Partire da Luca significa esplorare con profondità cosa significhi lavorare nel cinema a Milano e quale rapporto si possa costruire tra la città e chi ne racconta le storie dietro la macchina da presa.

 

Questo incontro nasce per inaugurare “Retroscena”, una rubrica mensile dedicata al dietro le quinte del cinema, pubblicata su Perimetro e Milano Film Fest. Era naturale iniziare con te, Luca, vista la tua incredibile carriera.

Beh, “milanese”!

 

E non solo. Ripassando la lista dei tuoi film mi girava la testa: quanti ne hai fatti?

Non li conto, ma saranno più di 100. Faccio in media tre film all’anno e, lavorando da 40 anni, siamo attorno a 120.

Con un curriculum così cosa ti motiva ancora oggi?

Innanzitutto, lavorare con le stesse persone. Con il tempo si crea una familiarità che arricchisce ogni progetto. Inoltre, il digitale ha rivoluzionato tutto: ci siamo liberati della pellicola, uno strumento costoso, inquinante e limitante. Ora posso girare con pochissime luci, utilizzando solo quelle naturali, o persino con un telefono. Questo approccio offre un realismo e una libertà che prima erano impensabili.

 

La luce naturale sembra centrale nel tuo lavoro. Quanto incide sul racconto?

Ogni film richiede una luce “giusta” più che “bella”. Questo deriva dalla mia esperienza di vita: case proletarie, borghesi, viaggi, pittura, musica. L’illuminazione è sociologica, rispetta i contenuti politici e sociali della sceneggiatura.

C’è un tuo film che consideri il più riuscito da questo punto di vista?

“Il divo” di Paolo Sorrentino. Nonostante il budget ridotto, il risultato è visivamente potente e restituisce l’atmosfera cupa di quegli anni difficili.


Hai usato strumenti non convenzionali per illuminare le scene?

Spesso utilizzo solo la luce ambientale. Gli attori a volte si chiedono: “Dov’è la mia luce?”. Rispondo: “È questa, non ci sono proiettori!”. Con il digitale, posso lavorare con più camere contemporaneamente, riducendo i tempi e migliorando le performance degli attori. La velocità sul set è cruciale, ma la vera creatività avviene in post-produzione, dove posso intervenire su dettagli impossibili da modificare in pellicola.

Un giovane direttore della fotografia oggi ha più vantaggi o difficoltà?

Ha più possibilità tecniche, persino con un cellulare, ma meno rispetto economico. Il precariato li schiaccia, ed è inaccettabile. Serve una ribellione.

Milano è una città cinematograficamente poco esplorata. Cosa ne pensi?

Milano ha un potenziale immenso, con quartieri e architetture variegate. Purtroppo, manca il sostegno economico e politico per valorizzarla. La Film Commission Lombardia, per anni inefficiente, non ha aiutato. A differenza di Torino, che ha attratto molte produzioni, Milano è stata trascurata.

Milano ha una luce particolare?

La luce non è definita dalla geografia. Con il digitale, possiamo ricreare qualsiasi atmosfera. È una questione di scelta creativa, non di latitudine.

Che caratteristiche dovrebbe avere un festival del cinema a Milano nel 2025?

Deve essere giovane, innovativo e dare spazio a proposte nuove. Il cinema tradizionale ha già i suoi festival. La questione generazionale è centrale, non quella geografica.

Ti interessa lavorare con registi stranieri o vincere l’Oscar?

No, preferisco lavorare in Italia, dove conosco la cultura e posso interpretarla al meglio. L’Oscar? Non me ne importa nulla.

Qual è stato il riconoscimento più significativo per te?

Insegnare ai giovani. Quando li vedo girare corti con un cellulare e senza luci, e capiscono qualcosa di nuovo, io sono felice.