Intervista a Paolo Gonzato

Fotografie di  Simon
Intervista di Fabrizio Meris

 

 

 

 

 

 

 

 

Sei cresciuto a Busto Arsizio ma sei milanese d’adozione. Ti sei trasferito per studiare allAccademia di Brera, erano gli anni Novanta. Cosa ricordi del clima culturale che si respirava in quegli anni?

 

 

La Biennale di Venezia di Jean Claire “Identita e alterità” del 1995 è stata per me lo spartiacque tra la vita di provincia e quella milanese. Rimasi impressionato da quello che avevo visto e da quell’energia. Ricordo in particolare una serie pittorica dell’artista sudafricana Marlene Dumas. Quell’estate poi coincise con il mio primo viaggio a Parigi, la scoperta dell’Europa. A Milano condividevo una mansarda in zona Lancetti/Bausan al sesto piano senza ascensore, uno dei coinquilini era scappato dopo un mese con una parrucchiera. Un altro ricordo ancora vivido è dell’estate del 1997: mentre passavo con vigore l’aspirapolvere su una moquette orrenda hanno dato alla radio la notizia che avevano ucciso Gianni Versace, c’era il mito della moda, pile di Vogue ovunque sul pavimento. Erano anni molto “sintetici”, si viveva moltissimo la dimensione notturna dei club, i vestiti di vinile, uscivo tutte le sere facendo l’autostop. Per un periodo passava GiuliDrink a prendermi con una  vecchia Mercedes in platform shoes blue elettrico di Vivienne Westwood per andare al Plastic o alla serata Pervert dell’Hollywood, da cui a volte andavo direttamente alle lezioni in Accademia.

Già da qualche anno frequentavo saltuariamente i locali milanesi come l’After Dark di viale Certosa – di cui si diceva che i disegni alle pareti fossero di Keith Haring – mi aveva sorpreso per la libertà estetica delle persone. Io facevo quadri figurativi con fogli di polietilene cuciti, ipertrofici e di grandi dimensioni.

 

 

 

 

 

 

 

Chi erano i personaggi milanesi che più ti hanno colpito in quel periodo di formazione, i più carismatici certo ma anche i più ironici e più strani.

 

 

Ho sempre avuto una particolare predilezione e attrazione per i freaks, e per storie che, immancabilmente, sono andate storte, gente  conosciuta in discoteca ovviamente… come il barista di un locale che mi ha sfasciato la casa e rotto pure un dito. Agli antipodi, ricordo di essere stato invitato in un loft per un compleanno, tutto era grigio, severo, arredato con mobili da ufficio di metallo grigi. La padrona di casa dai capelli color fuoco indossava un abito grigio plissettato di Issey Miyake e serviva una torta perfettamente rettangolare e glassata con crema assolutamente grigia, era Lucrezia De Domizio Durini, la vestale di Joseph Beuys.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sei un artista multidisciplinare hai realizzato dipinti, collage, sculture performance e più recentemente anche ceramiche. Il concetto di perimetro risuona particolarmente nella tua produzione chiamata OUT OF STOCK in cui delimiti spazi e campiture di colore ma anche di materiali, idee e sentimenti, riorganizzando il caos in ordinati rombi

 

 

“In geometria, il perimetro è la misura della lunghezza del contorno di una figura piana”. Il perimetro è un confine, un limite da sorpassare ma anche una zona di conforto. Il mio perimetro è un concetto architettonico, una gabbia aperta che prende il nome di OUT OF STOCK. Una griglia che contiene una narrazione fatta di categorie di persone da me invitate a sceglierne i colori che compongono ogni pezzo, cosi come i campionamenti dallo spazio che li ospita. Coesistono, in questo perimetro, parti di miei lavori distrutti e rimontati, carte da regalo usate, brandelli di indumenti familiari, perle e conchiglie come souvenir di vita. C’è poi un lavoro che tengo per me, una piccola tela che ho cominciato a dipingere nel 2005, il primo strato della griglia lo ha dipinto mia sorella Michela, ogni anno aggiungo dei rombi sovrapponendoli all’esistente. Forse questo è l’aspetto emotivo del mio perimetro.

 

 

 

Volendo ben guardare non solo sei milanese ma anche un orgoglioso abitante di Nolo, la zona a nord di piazzale Loreto delimitata tra i magazzini raccordati della Stazione Centrale e via Padova. Quando ti sei trasferito in quella zona e perché la trovi adatta a te?

 

 

Vivo nel quartiere dal 2008, Nolo nemmeno esisteva, mi stavo trasferendo da via Padova dove ero rimasto parecchi anni. L’ho scelta, in verità, perché non c’era nessuno, potevo uscire per strada in pigiama, volendo, e intorno avevo tutto quello che mi serviva. La Stazione Centrale è a pochi minuti percorrendo la via dei magazzini abbandonati e i mezzi pubblici sono a portata di mano. Begli edifici, Casa Lavezzari di Terragni in piazza Morbegno per esempio e la chiesa di Achille Castiglioni in via Termopili appena fuori viale Monza, ma anche anonimi palazzi molto milanesi. Ora dal roof del mio palazzo vedo i binari e lo skyline della nuova Milano insieme al Pirellone, in pochi anni è molto cambiata la zona e tutti vogliono venire a vivere qui.

 

 

 

 

 

 

 

Durante il Covid di questa primavera tutti abbiamo riscoperto i ritmi della vita di quartiere. Ci sono stati dei tuoi punti di riferimento che ti hanno aiutato a superare questa stagione cosi intensa ?

 

 

Lo scorso anno ho acquistato un grande studio qui in zona, approfittando dei giri giornalieri col mio bulldog francese Artù, ho sfruttato il lungo periodo del COVID per imbiancarlo meticolosamente. Un amico mi ha dato una grossa mano a rendere candidi quei 120 mq di laboratorio. In studio ho impastato vasi su vasi, continuamente, un diario in ceramica di cui mi sono preso cura giorno dopo giorno.

 

 

 

Questo autunno ti vede protagonista a Milano di due mostre personali in due punti diversi della città, con due atmosfere diverse ma legate del tuo amore per la sperimentazione con i materiali e dalla passione per introiettare larte nel design e viceversa.

 

 

BARACCHE e PASTICHE sono le due mostre personali che erano stata programmate a Milano per la primavera 2020 e poi per necessità posticipate all’autunno.

BARACCHE , la mia seconda mostra da Camp Design Gallery, presenta nello spazio in zona Navigli nove sculture luminose, pezzi unici realizzati in vetro e prodotte dalla galleria con l’accompagnamento di un testo critico di Damiano Gulli.

Una serie di lavori inediti in ceramica che riflettono sull’idea di copia e archeologia, attraverso il filtro dell’opera di Giambattista Piranesi, costituiscono invece il centro della mostra PASTICHE allestita presso la galleria Officine Saffi e curata da Fabrizio Meris. Mi piace l’aspetto analogico della manipolazione dei materiali sia fisica che concettuale, quando è nelle mie capacità infatti realizzo i miei lavori in prima persona. Entrambe le mostre sono stratificazioni geologiche di segni e riferimenti. La storia del design è il mondo di riferimento per i miei pezzi d’arte e scultorei, mentre al contrario i lavori di “Functional Art” nascono dallo sviluppo di concetti di unicità che solitamente sono propri delle belle arti. È come se due linee di pensiero agli antipodi si incontrassero sovrapponendosi in un punto centrale. Le ceramiche e i lavori stampati in 3D di PASTICHE sono copie di copie di copie di copie, distorsioni di echi lontani nel tempo e negli ambiti, a creare un tempo indefinito, un techno-passato fatto da reperti di un futuro archeologico. I fregi di BARACCHE  sono la traduzione derivativa del segno a onde dell’eternit,  piccole architetture estemporanee realizzate in un unico irripetibile momento. Il tempo è ora ma è un tempo perenne e indefinito.