“Ad Alghero si dice “com s’appaltocca” per dire “a regola d’arte”, “come si deve”. Io, un algherese atipico che il dialetto l’ha imparato a modi di dire, ho sempre pensato che volesse dire “con il paltò”. Avere il paltò, il cappotto, ha sempre significato essere apposto, perfetti, dignitosi. Io cappotti non ne compro, non ho mai avuto bisogno di comprarne perché ne eredito, tanti. I cappotti, come tutto il resto del mio guardaroba ereditato, non sono utensili passeggeri o sfizi di uno che nel fashion system ci annega. Al contrario, ho l’abitudine di considerare ogni pezzo del mio guardaroba come un pezzo di cuore. I cappotti specialmente. Ne ho di mio padre, di mio nonno, ma anche di qualche sconosciuto che l’ha lasciato al mercato di Porta Portese. Il cappotto ora è mio. L’ho trovato, lavato, modificato, abbellito, tagliato e ricomposto. Ora lui in cambio mi scalda, mi protegge, mi porta in giro e dice di me molto di più di quanto a volte vorrei venisse detto.” C’è un termine giapponese, tsukumogami, che indica l’anima degli oggetti. Secondo la tradizione nipponica un qualsiasi oggetto raggiunti i cento anni diventa senziente, esiste come spirito. Se questo oggetto è stato trattato bene e dopo il suo utilizzo viene custodito con cura diventerà uno spirito benevolo, in caso contrario diventerà un demone maligno. È vero che gli oggetti sono impregnati dell’anima di chi li ha posseduti, e i cappotti con la loro forma antropomorfa, forse lo sono anche di più. Perché sono stati concepiti per un compito delicato. Quello di scaldarla, l’anima.