PASSAPAROLA – Il teatro portato fuori – Episodio 3 – Daria Bignardi

Fotografie di Letizia Toscano
Rubrica: Passaparola

 

 

Il teatro vive di passaparola. Vive in sala durante lo spettacolo e vive fuori, quando gli spettatori raccontano quello che hanno visto e che vorrebbero che anche altri vedessero.

Per il terzo episodio di Passaparola, il format realizzato da Perimetro con il Piccolo Teatro di Milano, Jonathan Bazzi ha suggerito come prossimo ospite Daria Bignardi, che è venuta con un suo caro amico di passaggio a Milano, l’illustratore Emiliano Ponzi a vedere Pupo di zucchero di Emma Dante.

Uno spettacolo potente e toccante che ci ha portato a condividere il nostro punto di vista su temi intimi e personali come la vita, la morte e poter immaginare di parlare con chi ci ha lasciato.

Le foto sono di Letizia Toscano, l’ intervista a Daria Bignardi di Sebastiano Leddi.

Si esce dallo spettacolo con tante emozioni che rimangono nello stomaco. Una celebrazione della morte o una festa della vita?

La morte fa parte della vita. Credo sia proprio questo che Emma Dante mette in scena: il ciclo della vita che comprende la morte e le dà senso, la riempie. La morte rappresentata da Emma Dante è viva.

Il tempo d’azione di questa storia coincide con il giorno dei morti. Il lutto condiviso in famiglia è una delle celebrazioni più intense che si possano vivere. Hai qualche ricordo personale che ti va di condividere con noi? 

Tanti! Ne ho scritto anche nel mio primo libro, del 2008, Non vi lascerò orfani, che parla proprio della morte dei miei genitori. Mio padre è morto quando avevo 23 anni e le sue ultime ore le abbiamo passate insieme, io e lui da soli. Un privilegio che non ho avuto con mia madre: sono arrivata che era morta da mezz’ora. Ma quando è morta lei ero adulta, avevo una mia famiglia e ho potuto condividere quel momento con pienezza, emozione e significato. Prima di tutto con mia sorella, poi col resto della famiglia, poi con tanti lettori. Una celebrazione della vita e dell’amore. Ho capito che l’amore che ci viene dato rimane.

Se davvero chi è venuto a mancare potesse tornare a farci visita una volta all’anno c’è qualcuno che vorresti rivedere?

Magari qualche nonno che non ho mai conosciuto, come mio nonno Dante o mia nonna Adele, bolognesi, morti molto prima che io nascessi. Non potrei rivedere qualcuno che ho amato, mi emozionerei troppo.

I dialetti hanno un impatto viscerale capace di mettere in moto dinamiche mentali legate alla memoria. Quando senti qualcuno che parla nel dialetto dei tuoi luoghi di appartenenza ti capita che riaffiorino ricordi lontani?

Non tanto perché da piccola non sentivo parlare in dialetto in famiglia, da noi non si usava. Peccato perché i dialetti sono lingue ricche, ancestrali, meravigliose. Quelli del sud poi sono davvero affascinanti, soprattutto i dialetti campani e siciliani. Anche la lingua sarda è magnifica.

A teatro si toccano spesso corde intime e si crea una particolare empatia tra chi guarda insieme uno spettacolo. In questa occasione con te al Piccolo c’era l’illustratore Emiliano Ponzi. Con chi ti capita di andarci di solito?

Sempre con amici intimi. Il teatro è un esperienza forte che è bello condividere con relazioni profonde.

Visivamente Pupo di zucchero genera fotografie molto forti quasi senza una scenografia: la tua memoria si è portata via qualche immagine?

Moltissime! Pupo di zucchero è una festa di immagini indimenticabili. I balli, i baci della coppia tossica che si ama e si distrugge, le mummie. Ma anche i suoni, le voci, le canzoni. E la figura del protagonista, dolcissima e penetrante.

Attraverso questo format un po’ sperimentale stiamo provando ad indagare la relazione tra il teatro e la vita e quanto teatro ci sia qui fuori, nelle nostre vite. Perché in fondo ogni rappresentazione è un racconto dell’esistenza e la vita ci chiede di dare una rappresentazione di noi stessi: qual è il tuo punto di vista?

È vero. Quando il teatro è vivo e potente come quello di Emma Dante o di altri, penso anche a Daria Deflorian, la relazione con la nostra vita è così stretta che ce la portiamo con noi per sempre, incisa nella costellazione di incontri che ci definiscono.