Visual Thinkers – Intervista a Alessia Locatelli
a cura di Emilia Jacobacci
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Continuano le interviste di Visual Thinkers la nuova rubrica di Perimetro dedicata alle personalità che operano nell’ambito dell’immagine. Per il terzo appuntamento abbiamo fatto due chiacchere con Alessia Locatelli, Direttrice artistica della Biennale Internazionale di Fotografia Femminile, curatrice, docente ed esperta dell’immagine fotografica.
Ti occupi di fotografia a 360 gradi tra workshop, docenze e la Biennale: ci racconti com’è iniziato tuo percorso?
Ho Iniziato con una classica laurea in lettere con indirizzo storia dell’arte, che secondo me però è importante perché ti dà la trasversalità e l’idea che non ci sono compartimenti stagni, per cui la fotografia si lega e si connette a tutta una serie di visioni precedenti in campo pittorico e artistico che appartengono alla storia dell’arte e allo studio sicuramente non di derivazione solo fotografica. Dopodiché d’estate lavorando nei laboratori ho potuto imparare tanto lavorando in analogico con le provinature, i provini, striscia a contatto, i formati dei negativi. Sono poi passata a lavorare con la cartiera tedesca Hahnemüle dove mi sono occupata della scelta dei progetti da sostenere in Italia per la sponsorizzazione. Nel frattempo mi sono appassionata alla fotografia e ho iniziato a fare il curatore proponendo non solo curatela e mostre a istituzioni e brand ma anche organizzando corsi e workshop di fotografia e di curatela, per la costruzione del portfolio, per raccontare tutta la filiera virtuosa che deve esserci dall’idea della fotografia alla realizzazione finale. È una cosa in cui credo tantissimo specialmente oggi che con il passaggio dall’analogico al digitale, anche il mio gatto può scattare cinquemila volte con la zampina e venti foto belle le fa: oggi è richiesta un’idea, il famoso concept entro cui muovere prima di scattare, e individuarlo personale e forte fa si che poi quando si scatti sia abbia già un linguaggio acquisito filtrato più personale e quindi più vincente nella narrazione del tema che si affronta. Senza poi contare che il concept è quello che ti porti dietro nella fase della produzione fisica della stampa, che sia un progetto allestitivo o editoriale, perché è sempre comunque uno spazio da riempire, una relazione col fruitore da avere, una sensazione da lasciare di una storia. Ecco, tutto questo mi appassiona molto. Insegno anche in università, con le scuole civiche di Milano, Storia della fotografia di moda e Storia e critica della fotografia: sono studenti grandi, di diciotto vent’anni, e anche questo mi piace molto.
Dal 2020 sei direttrice della Biennale Internazionale di Fotografia Femminile che si tiene a Mantova. Da cosa nasce questo progetto?
Si, nel 2020 mi ha chiamato La Papessa, un’associazione di Mantova che cercava un direttore artistico: ora stiamo lavorando ora alla terza edizione, che si terrà a Mantova per sei weekend, dall’otto Marzo fino al 14 Aprile 2024. La BFF è l’unica biennale al mondo di fotografia femminile. Questo lo dico con una punta d’orgoglio perché cerchiamo di dare valenza internazionale a delle fotografe che nonostante vantino nel loro curriculum world press photo, collaborazioni con grandi agenzie internazionali, mostre in istituzioni e gallerie prestigiose, in Italia hanno poche occasioni di visibilità. Il tema di quest’anno è ‘Private’, che gioca con la doppia lingua,quindi riferito a qualcosa di sottratto al femminile ma anche alla ‘privacy’: cos’è pubblico, cos’è privato, qual è il nostro privato in questa società globale, di continua osservazione e di continuo essere sui social, cosa rimane di noi stessi e del nostro essere? Sarà possibile partecipare da fine maggio attraverso la pagina instagram BFFM o sul sito bffmantova.com : l’open call è internazionale, senza limiti di età, rivolta alle donne o chi è in fase di diventarlo.
Parlando di fotografia femminile, secondo te è ancora molto presente il divario tra gender nel mondo della fotografia?
Non mi sento di definire la fotografia femminile ‘fotografia di genere’, il problema non è solo femminile ma come dico sempre di ‘orizzonte occupato’: questa biennale nasce su una necessità occupazionale: se chi detta opinione appartiene ad un’unica categoria – pensiamo alle grandi agenzie o alle grandi scuole di fotogiornalismo negli Stati Uniti a larga maggioranza composte da maschi bianchi cisgender che definiscono il mondo in cui ci muoviamo – abbiamo bisogno di volgere lo sguardo altrove. È una questione legata non solo al genere ma all’esclusione dall’orizzonte, che tu sia donna o che tu sia minoranza etnica o sociale. Da un lato vorrei quindi oltrepassare il discorso di ‘genere’, dall’altro c’è un gap da colmare, in primo luogo occupazionale: è una necessità culturale e sociale, al punto 5 dell’agenda ONU 2030, non solo un problema di genere.
Quale immagine ti ha colpito di più di recente?
Sicuramente quella di Newsha Tavakolian, una fotografa iraniana che ha prodotto anni fa l’immagine che vedete. Vorrei sottolinearla in questo momento perché non è solo un movimento femminile quello che sta cercando in Iran di cambiare le cose: certo le donne sono quelle che lo subiscono di più ma è una lotta di tutti i cittadini e lavoratori dell’Iran. I mass media tendono a dimenticare ma non va tenuta bassa l’attenzione.
Tra spazi festival e ibridi la fotografia moltiplica i suoi appuntamenti in ogni dove: i tuoi posti irrinunciabili per la fotografia a Milano?
Non ho un posto irrinunciabile, piuttosto tanti posti. Io vorrei che Milano facesse un passo avanti nella fotografia perché ci sono tantissime realtà private, associative, che ci credono e purtroppo è tutto sulle loro spalle. Milano fa veramente poco per sostenere la fotografia, soprattutto quella parte di talent scouting che non può essere fatta dal privato. La mia è una richiesta all’istituzione milanese di dedicarsi un pò di più alla giovane fotografia, di dare un pò più spazi, se non soldi, alle opportunità perché purtroppo finisce sempre che bisogna pagare per fare cose e non è giusto: se si crede in un lavoro bisogna sostenere l’autore.
Ci consigli tre fotografe da tenere d’occhio?
Muovendoci in ambito internazionale direi Moe Suzuki (Tokyo 1984) Sarah Mei Herman (Amsterdam 1980) e Sim Chi Yin (Singapore 1978) autrice del suggestivo lavoro sul trasporto delle sabbia Shiting Sand.
Moe Suzuki 底翳 SOKOHI (2020)
Sara Mei Herman TouchXiaoyu & Qiumo, Utrecht, June 2019
Sim Chi Yin Shifting Sands Singapore, Malaysia, China, 2017 – on-going
Quale qualità consiglieresti di coltivare ad un fotografo emergente ?
In primis lo studio. Non lo studio dei grandi fotografi, ma proprio lo studio della vostra idea. Oggi siamo fatti di immagini passive, perché viviamo formandoci con immagini che si stratificano in noi : lo studio dell’idea da vari punti vista – scientifico, antropologico, sociale, religioso – permette di uscire dalla sovrastruttura di cui siamo fatti e di creare immagini attive, personali, scelte da voi. Poi la curiosità : tutti i grandi fotografi sono esseri umani curiosi, che non si sono limitati a fotografare e a conoscere la fotografia ma che avevano passioni di cinema, di tessuti, di storia dell’arte, di moda, piuttosto che di viaggi o di conoscenza di realtà lontane dalle loro. Quello fa la differenza, oggi come ieri.