“Chi mi conosce associa mentalmente la mia immagine a questo cappotto. È incredibile. Eppure non è che lo indossi spesso, ne metto anche altri. Ma questo cappotto, non so, mi identifica.” Il cappotto che Antonio indossa nelle foto era di suo papà. Un cappotto di cammello, lungo, elegante. Un cappotto che è stato per anni custodito in un armadio della profonda provincia pugliese. Poi Antonio l’ha tirato fuori e l’ha portato su a Milano. Antonio ha sempre avuto una particolare fascinazione per i cappotti, per lui sono davvero il correlativo oggettivo dell’eleganza. “Appena ne indossi uno, indossi un’allure”.
Un giorno ne ha comprati otto in un colpo solo. Ne ha davvero tanti e ne cambia in continuazione eppure non riesce a capacitarsi di come le persone, come prima immagine, lo associno proprio a quel particolare cappotto di cammello. In realtà lo sa perché.
“Il segreto è nella vestibilità, sta tutto lì”. Avrei immaginato una risposta più trascendentale, invece era semplicemente sartoriale.
“È una questione di proporzione, prima che di taglio e di tessuto.”
Pur non essendo stato disegnato per lui, pur essendo di una taglia più grande, quel cappotto lo sente talmente bene su di sé che è quasi una seconda pelle.
“Mio papà lo riempiva con la pancia, io con l’altezza”, mi dice sorridendo. Gli oggetti a volte hanno delle vite diverse, a seconda di chi li riempie o di chi li svuota. Così come i rapporti tra le persone. Siamo diversi con chi ci riempie, siamo diversi con chi ci svuota. Nel cappotto di cammello di Antonio in più c’è la componente affettiva. Quella del rapporto, immortale, tra padre e figlio. Un rapporto che nel suo racconto è fatto di pieni e di vuoti. Laddove l’uno non arriva a riempire ci riesce l’altro, a modo suo. È che certe volte, per stare bene, non serve indossare il vestito della taglia giusta, ma quello che mai avremmo immaginato per noi.